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Diritto Civile. Il Notaio è responsabile se stipula una compravendita in cui il venditore è fallito

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Diritto Civile. Il Notaio è responsabile se stipula una compravendita in cui il venditore è fallito

“Nell’ipotesi di responsabilità contrattuale del notaio che stipula un atto di trasferimento immobiliare in capo ad un venditore fallito deriva causalmente l’inefficacia dell’acquisto e la riconsegna del bene. Ai fini dell’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile all’acquirente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1223 c.c., il valore del bene determinato per reintegrare il patrimonio del danneggiato è diminuito dell’utilitas che il danneggiato ha tratto godendo dell’immobile quale proprietario sulla base dell’atto valido, ma inefficace e non opponibile ai creditori.”

Con la sentenza n. 26908 del 19 dicembre 2014, la Terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione, accertata la responsabilità contrattuale del notaio, si esprime con riferimento alla violazione del principio tra il chiesto ed il pronunciato e sulla esistenza ed entità del danno risarcibile all’acquirente.

Nel caso di specie, con riferimento al primo motivo proposto, in tema di giudizio di appello non è ipotizzabile la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato qualora il giudice di appello riformi in parte la sentenza impugnata indipendentemente dalla richiesta di riforma parziale da parte dell’appellante, atteso che il petitum immediato dell’appello è la riforma della sentenza, mentre l’ampiezza della riforma dipende dall’esito dello scrutinio degli specifici motivi di appello proposti.

Con riferimento alla quantificazione del danno da risarcire, la Corte di merito, con la sentenza impugnata, ha rideterminato il danno subito dal danneggiato dando rilievo all’esigenza corretta di tener presente la perdita effettivamente subita ed ha valutato il vantaggio derivante dal godimento dell’immobile, incidente sulla perdita subita. Ma ha perseguito l’obiettivo attraverso una arbitraria trasformazione del debito di valore in debito di valuta.

Gli ermellini affermano l’impossibilità della trasformazione di un debito di valore in un debito di valuta in considerazione che la distinzione ha fondamento nel momento genetico dell’obbligazione, attinendo all’oggetto diretto e primario della prestazione, a seconda che sia “denaro” (debito di valuta) o “diversa dal denaro” (debito di valore). E, pacificamente, l’obbligazione di risarcimento del danno per inadempimento di obbligazioni contrattuali, diverse da quelle pecuniarie, costituisce, al pari dell’obbligazione risarcitoria da responsabilità extracontrattuale, un debito non di valuta ma di valore, in quanto tiene luogo della materiale utilità che il creditore avrebbe conseguito se avesse ricevuto la prestazione dovutagli.

Cass. civ. Sez. III, Sent., 19-12-2014, n. 26908

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO Libertino Alberto – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13947/2011 proposto da:

R.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. CIVININI 12, presso lo studio dell’avvocato LUCA SPINGARDI, rappresentato e difeso dall’avvocato D’ANGELO VITTORIO, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 161/2011 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 17/02/2011, R.G.N. 1393/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2014 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato VITTORIO D’ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, l’accoglimento del ricorso p.q.r..

 

Svolgimento del processo

 

  1. R.G., nel maggio 1995, convenne in giudizio il notaio Dott. A.L. e chiese il risarcimento del danno conseguente a responsabilità professionale. Espose: di aver acquistato, con atto del 30 giugno 1984 a rogito del notaio, un appartamento da D. G.; che l’azione per la dichiarazione di inefficacia dell’atto di trasferimento suddetto, proposta nei suoi confronti dalla Curatela del Fallimento di D.G. e C.V., dichiarati falliti nell’aprile 1980, era stata accolta con sentenza del febbraio 1994; che il notaio aveva omesso di informarlo dell’avvenuto fallimento, del quale era a conoscenza.

Il Tribunale accolse la domanda e condannò il notaio al pagamento della somma di Euro 61.685,00, comprensivi di Euro 7.867,68, per miglioramenti sull’immobile, oltre interessi dalla domanda, nonchè alla restituzione delle spese per il rogito (oltre Euro 1.900, e interessi dal 10 giugno 1985.

La Corte di appello, accolse parzialmente l’impugnazione del notaio.

Confermò la sentenza di primo grado quanto alla responsabilità professionale; confermò per mancanza di impugnazione la condanna del notaio alla restituzione di oltre Euro 1.900,00; confermò la condanna al pagamento delle somme impiegate per il miglioramento dell’immobile, per Euro 7.867,68; ridusse l’importo dovuto per il risarcimento da Euro 53.817,40 all’ammontare di Euro 15.493,71 (sentenza del 21 maggio 2011).

  1. Avverso la suddetta sentenza, il R. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

Il notaio, ritualmente intimato, non svolge difese.

 

Motivi della decisione

 

  1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c., e la conseguente nullità della sentenza, per la violazione del principio della necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato nel giudizio di appello.

Il ricorrente sostiene che con le conclusioni (nell’atto di appello e nell’udienza di precisazione delle conclusioni) il notaio appellante aveva chiesto la totale riforma della sentenza impugnata e l’integrale rigetto della domanda, oltre la condanna dell’appellato alla restituzione delle somme versate, anche per effetto della provvisoria esecuzione della sentenza. Mentre, la Corte di merito, in violazione del principio della domanda, aveva deciso, d’ufficio, nel senso di una riforma parziale mai chiesta, con conseguente restituzione parziale delle somme versate.

Il motivo va rigettato.

1.1. La questione posta all’attenzione della Corte è “se sia violato l’art. 112 cod. proc. civ., sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, qualora, in presenza di motivi di appello che riguardano specificamente sia Van che il quantum della responsabilità, la Corte di merito li esamini entrambi, rigettando il primo e accogliendo il secondo, mentre nelle conclusioni dell’atto di appello (così come in sede di precisazione delle conclusioni) si chiede solo la riforma integrale della sentenza e non anche, in via quantomeno subordinata, la sola riforma del quantum”.

La risposta al quesito è negativa.

1.2. Non vi sono dubbi, nella specie, che l’appellante aveva articolato motivi specifici sull’an della responsabilità e sul quantum del risarcimento (è inequivocabile sulla base della sentenza); nè si dubita, sostanzialmente neanche da parte dello stesso ricorrente, che il richiamo a detti motivi fosse stato fatto e in sede di conclusioni di appello e in sede di precisazione di conclusioni (nelle conclusioni riportate in sentenza, si legge “…

ritenere fondati i motivi esposti con il presente gravame e per l’effetto, in riforma della sentenza…”. Quindi, non viene in rilievo nè l’assenza di motivi specifici di impugnazione, nè la rinuncia ad entrambi o a parte di essi in sede di precisazione di conclusioni.

Secondo il ricorrente, infatti, la Corte avrebbe violato l’art. 112, in argomento per aver accolto solo il secondo motivo, attinente al quantum del risarcimento e alle modalità della sua determinazione, senza che l’appellante avesse richiesto, in via subordinata al mancato accoglimento del primo motivo (concernente Van della responsabilità), l’accoglimento almeno del secondo motivo, essendosi limitato a chiedere genericamente l’integrale riforma della sentenza.

1.3. La giurisprudenza di legittimità, nell’occuparsi della specificità dei motivi di appello richiesta dall’art. 342 c.p.c., (nella formulazione anteriore a quella risultante dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) in rapporto al richiamo esplicito dell’art. 163 c.p.c., ha ritenuto che “Il testo dell’art. 342 c.p.c., deve intendersi nel senso che la previsione del requisito della specificità assorbe i contenuti di cui al citato art. 163, comma 3, nn. 3) e 4), con la conseguenza che la mancata riproduzione, nella parte dell’atto di appello a ciò destinata, delle conclusioni relative ad uno specifico motivo di gravame non può per ciò solo equivalere a difetto di impugnazione, ovvero essere causa di nullità della stessa, se dal contesto complessivo dell’atto risulti, sia pur in termini non formali, una univoca manifestazione di volontà di proporre impugnazione per quello specifico motivo”. (Cass. n. 25751 del 2013).

Correttamente, la “determinazione della cosa oggetto della domanda” di cui all’art. 163, n. 3), e “l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni”, di cui al successivo n. 4), modellati sull’atto introduttivo del giudizio del quale delimitano il contenuto, sono state rapportati alla funzione della specificità dei motivi di appello, che è quella di delimitare l’oggetto dell’impugnazione e di indicarne le ragioni finalizzate a rimuovere la soccombenza dell’appellante risultante dalla sentenza impugnata.

Proprio in ragione della funzione diversa assolta dall’atto di appello rispetto all’atto introduttivo del giudizio di primo grado diminuisce grandemente il rilievo, sino quasi a scomparire, di quello che viene tradizionalmente qualificato come petitum immediato o come oggetto processuale, quale contenuto del provvedimento giurisdizionale richiesto in contrapposizione all’oggetto sostanziale o bene della vita cui aspira l’attore. Infatti, dalla finalizzazione dei motivi specifici alla riforma della sentenza impugnata deriva che il provvedimento chiesto al giudice coincide con la riforma della sentenza. Mentre, l’ampiezza della riforma, entro i confini massimi delimitati dall’appellante con i motivi di impugnazione, non è altro che la conseguenza dell’esito dello scrutinio dei motivi di impugnazione, esaminati secondo la sequenza di priorità imposta al giudice dalla norme procedurali e, comunque, dalla connessione logica interna alla materia di contendere. Così, nella specie, la proposizione di motivi di impugnazione volti alla riforma integrale della decisione, mediante la censura delle statuizioni sull’an della responsabilità e delle statuizioni sulle modalità di determinazione del quantum del risarcimento, investe il giudice dell’intera materia del contendere e la riforma della decisione impugnata sarà integrale o parziale a seconda dell’esito dello scrutinio da parte del giudice, indipendentemente dalla mancata richiesta di una riforma solo parziale della sentenza impugnata.

In conclusione, può enunciarsi il seguente principio di diritto: “In tema di giudizio di appello, non è ipotizzabile la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato qualora il giudice di appello riformi in parte la sentenza impugnata indipendentemente dalla richiesta di riforma parziale da parte dell’appellante, atteso che il petitum immediato dell’appello è la riforma della sentenza, mentre l’ampiezza della riforma dipende dall’esito dello scrutinio degli specifici motivi di appello proposti”.

  1. Oggetto dei motivi di ricorso dal secondo al quarto è il risarcimento del danno, determinato dal giudice con criteri diversi e in misura inferiore rispetto al primo grado.

2.1. Mentre il primo giudice aveva riconosciuto come danno il valore dell’immobile a suo tempo acquistato, come quantificato dal consulente al gennaio 1999, la Corte di merito, in parziale accoglimento della impugnazione, ha ritenuto:

– che il danno va rapportato alla somma spesa per l’acquisto del bene, rimasta priva di controprestazione per effetto della dichiarazione di inefficacia dell’atto di compravendita e del conseguente rilascio dell’immobile (oltre che alla somma spesa per interventi di miglioramento), poichè, se la condotta del notaio fosse stata diligente e avesse rilevato l’avvenuto fallimento del venditore, l’acquirente non avrebbe potuto acquistare l’immobile, con conseguente nesso di causalità tra la condotta del notaio e il danno causato;

– che, avendo l’attore utilizzato l’appartamento sino al rilascio, nella determinazione del danno effettivo patito va considerato il corrispondente vantaggio patrimoniale (compensano lucri cum damno), derivando il vantaggio dallo stesso fatto illecito.

Quindi, ha liquidato il danno riconosciuto come effettivo considerando l’importo pagato per l’acquisto, – senza calcolare la rivalutazione monetaria, che, secondo lo stesso giudice, in presenza di un debito di valore quale quello derivante dall’inadempimento di una obbligazione contrattuale è volta a porre il danneggiato nella stessa posizione in cui si sarebbe trovato in assenza di inadempimento – oltre gli interessi legali dalla domanda al saldo, ritenendo che la perdita di valore della somma sia stata compensata, in “senso economico”, dalla fruizione dell’appartamento.

La Corte di appello ha rigettato, invece, l’impugnazione nella parte in cui censurava il riconoscimento degli esborsi per miglioramenti dell’immobile. In sintesi, la Corte di merito, nel determinare il danno in concreto, ha trattato il debito come se fosse di valuta (l’importo versato per il prezzo, con interessi dalla domanda al soddisfo) ed ha ritenuto di poterlo fare, pur riconoscendo che il debito era pacificamente di valore, perchè il vantaggio derivato dall’utilizzazione per venti anni della casa – ritenuto “compensabile” con il danno perchè derivante dallo stesso fatto illecito – poteva costituire “compensazione economica” della mancata liquidazione del danno come debito di valore.

2.2. Con il secondo motivo, si deduce la violazione degli artt. 1223, 1225 e 2058 c.c.; con il terzo, si deduce la violazione degli artt. 1218, 1223, 1224 e 1225 c.c.; con il quarto, insufficiente e contraddittoria motivazione in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5.

I motivi sono strettamente connessi.

Sul presupposto che la sentenza impugnata ha ritenuto il debito come debito di valuta, il ricorrente ricorda la pacifica giurisprudenza sulla natura reintegratoria del patrimonio del danneggiato nell’ipotesi di risarcimento per inadempimento contrattuale e la necessaria reintegrazione dell’intero pregiudizio, consistente nella perdita subita e nel mancato guadagno, con ricostituzione della situazione di fatto antecedente alla lesione, da liquidarsi per equivalente quando, come nella specie, non sia possibile il risarcimento in forma specifica (secondo). Con il terzo motivo si ribadisce la natura di debito di valore del debito derivante da inadempimento contrattuale. La censura motivazionale del quarto motivo, mette in risalto il contemporaneo riconoscimento della natura di debito di valore in contraddizione con l’aver fatto operare il debito di valuta nella quantificazione del danno. Soprattutto, la trasformazione dell’uno tipo di debito nell’altro per tener conto della fruizione dell’appartamento negli anni precedenti il rilascio (contraddizione), senza specificare (insufficienza) i criteri di determinazione della somma individuata in compensazione e, inoltre senza considerare, rispetto al prezzo dell’immobile, quanto pagato a titolo di mutuo.

Le censure meritano accoglimento nei limiti precisati.

  1. La Corte di merito ha rideterminato il danno subito dal danneggiato dando rilievo all’esigenza corretta di tener presente la perdita effettivamente subita dal danneggiato quale conseguenza dell’inadempimento contrattuale del professionista e, in tale prospettiva, ha dato rilievo al vantaggio derivante dal godimento dell’immobile, incidente sulla perdita subita.

Ma, ha perseguito l’obiettivo attraverso una arbitraria trasformazione del debito di valore in debito di valuta, nonchè attraverso una arbitraria quantificazione del vantaggio derivante al danneggiato dal godimento dell’immobile, individuandolo indirettamente nella misura corrispondente alla differenza tra la quantificazione del debito come di valore e la quantificazione del debito come di valuta, ritenendo quest’ultimo, insieme all’importo per i miglioramenti riconosciuti, idoneo a identificare la perdita in concreto subita dal danneggiato.

  1. La Corte di merito erra innanzitutto nella parte in cui considera trasformabile un debito, che pure riconosce come debito di valore, in un debito di valuta al fine di tener conto dell’utilitas ricevuta dal danneggiato ed incidente sulla misura della perdita.

Assorbente rispetto all’impossibilità della trasformazione di un debito di valore in un debito di valuta è la considerazione che la distinzione ha fondamento nel momento genetico dell’obbligazione, attinendo all’oggetto diretto e primario della prestazione, a seconda che sia “denaro” (debito di valuta) o “diversa dal denaro” (debito di valore). E, pacificamente, l’obbligazione di risarcimento del danno per inadempimento di obbligazioni contrattuali, diverse da quelle pecuniarie, costituisce, al pari dell’obbligazione risarcitoria da responsabilità extracontrattuale, un debito non di valuta ma di valore, in quanto tiene luogo della materiale utilità che il creditore avrebbe conseguito se avesse ricevuto la prestazione dovutagli.

Meno che mai il vantaggio derivante dall’utilizzazione dell’immobile, al fine di determinare la perdita in concreto subita, può farsi consistere nella differenza tra quantificazione del debito come se fosse di valuta e quantificazione del debito quale debito di valore.

Si tratta di chiarire come rileva il vantaggio del godimento dell’immobile nella concreta determinazione della perdita subita e, in definitiva, come si debba pervenire all’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile ai sensi dell’art. 1223 c.c..

  1. E’ principio indiscusso che il risarcimento, oltre a non dover impoverire il danneggiato, non deve arricchirlo; non può determinare a favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto. La regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno è posta dall’art. 1223 c.c., alla luce del quale, sia la perdita che il vantaggio patrimoniale devono essere conseguenza immediata e diretta (secondo la regola della regolarità causale della conditio sine qua non) del fatto illecito, inteso quale condotta illecita (per gli esiti, incompatibili con il principio previsto dalla legge, derivati dall’ancoraggio all’esistenza di un’unica fonte dell’obbligo piuttosto che alla unicità della condotta ai fini di verificare l’incidenza dell’utilitas sulla misura della perdita subita, si veda Cass. n. 13537 del 20149).

Rispetto alla specie in esame, dall’inadempimento del notaio (oramai definitivamente accertato), che ha rogato un atto di trasferimento immobiliare da parte di un venditore fallito e, quindi, un atto inefficace rispetto ai creditori (L. Fall., art. 44, originaria, applicabile ratione temporis) deriva causalmente l’inefficacia dell’acquisto (dichiarato nel 1994) e la riconsegna del bene (avvenuta nel 2004), nonchè il godimento del bene dall’acquisto alla effettiva riconsegna sulla base dell’atto valido, ma inefficace.

Al fine di reintegrare il patrimonio del danneggiato per equivalente, in modo che sia ricostituita la situazione di fatto antecedente alla lesione subita in concreto, dalla condotta inadempiente del responsabile derivano causalmente due conseguenze. La prima comporta che il compratore ha diritto a ottenere il valore del bene al momento del rilascio; mentre, attiene al merito, e non rileva in questa sede, se tale valore sia determinabile attualizzando il valore dell’immobile come individuato dal consulente tecnico al momento dell’accertamento o se sia necessaria una indagine di mercato su quale sarebbe stato il valore dell’immobile al momento del rilascio.

La seconda conseguenza della condotta inadempiente è l’utilitas che il danneggiato ha tratto godendo dell’immobile quale proprietario dal momento dell’acquisto all’effettivo rilascio (percependone i canoni se locato o utilizzandolo direttamente senza pagamento di canoni). E tale vantaggio va ad incidere sull’importo corrispondente al valore dell’immobile determinato per reintegrare il patrimonio del danneggiato, diminuendo la perdita subita con il vantaggio corrispondente.

Fermo, pertanto, che il danneggiato ha diritto al corrispondente monetario del valore dell’immobile al momento dell’effettivo rilascio, da tale ammontare andrà detratto l’importo corrispondente al vantaggio economico connesso al periodo di godimento dell’immobile determinato secondo criteri obiettivi, quali, ad esempio, i canoni dei prezzi di locazione di immobili con caratteristiche similari nell’area di mercato rilevante.

  1. Consegue, l’accoglimento dei tre motivi di ricorso in esame nei termini precisati e la cassazione, in relazione, della decisione inerente alla determinazione del danno risarcibile. Fermo restando, naturalmente, il giudicato ormai determinatosi sulle somme per i miglioramenti eseguiti sull’immobile, riconosciute dal giudice di appello e non censurate in sede di legittimità, nonchè il giudicato formatosi sulla restituzione delle spese per il rogito.

Resta assorbito il profilo di censura con il quale (terzo motivo) il ricorrente si duole della mancata considerazione dell’importo del mutuo pagato dall’acquirente ai fini della determinazione della somma spesa per l’acquisto dell’immobile. La censura, ipotizzata nella prospettiva del debito di valuta risarcibile seguita dalla Corte di appello con la decisione ora cassata, non assume più rilievo diretto ai fini della determinazione del valore dell’immobile.

La Corte di merito, cui la causa deve essere rinviata anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, nella determinazione del risarcimento spettante al danneggiato applicherà il seguente principio: “Nell’ipotesi di responsabilità contrattuale del notaio che stipula un atto di trasferimento immobiliare in capo ad un venditore fallito e, quindi, un atto inefficace rispetto ai creditori, dalla condotta del responsabile deriva causalmente l’inefficacia dell’acquisto e la riconsegna del bene, nonchè il godimento del bene sulla base dell’atto valido, ma inefficace, con la conseguenza che, ai fini dell’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile all’acquirente ai sensi dell’art. 1223 c.c., il valore del bene determinato per reintegrare il patrimonio del danneggiato è diminuito dell’utilitas che il danneggiato ha tratto godendo dell’immobile quale proprietario”.

 

P.Q.M.

 

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie i restanti tre motivi;

cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese processuali del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2014