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Diritto Penale. Riciclaggio – Le forme di manifestazione del delitto.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Riciclaggio – Le forme di manifestazione del delitto.

La sentenza in commento affronta un tema di politica criminale di grande attualità, evidenziando le diverse forme di manifestazione del delitto di riciclaggio ed enucleandone i relativi tratti distintivi rispetto alla ricettazione. L’accresciuta presa di coscienza, infatti, da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali in ordine all’ausilio che i fenomeni di riciclaggio apportano alle associazioni criminali nel moltiplicare i proventi di reato, traducendosi in un fattore di grande inquinamento dell’economia, nonché quale ostacolo al corretto sviluppo della concorrenza, ha determinato negli ultimi anni la predisposizione di una congerie di misure di contrasto alle condotte prodromiche alla penetrazione dei capitali criminali nel sistema economico.

La condotta punita ex art. 648-bis cod.pen., così, in un’ottica penale-repressiva, oltre che con la sostituzione ed il trasferimento, può realizzarsi attraverso il compimento di specifiche operazioni che ostacolino l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro, beni e altre utilità. Una vera e propria clausola di chiusura dunque, idonea a sanzionare qualsivoglia comportamento dissimulatorio finalizzato alla ripulitura del capitale illecito.

La sentenza n. 10746/2015 si inserisce nel descritto contesto normativo sancendo il principio di diritto in forza del quale, posto che il delitto de quo è annoverabile tra i reati a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive, <<integra di per sé un autonomo atto di riciclaggio qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro; e ciò anche al cospetto di una completa tracciabilità dei flussi finanziari, atteso che, stante la natura fungibile del bene, per il solo fatto dell’avvenuto deposito, il denaro viene automaticamente sostituito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante il mero tantundem>>.

La criminalizzazione del riciclaggio passa, come si legge, attraverso operazioni – versamento ed eventuale successiva monetizzazione di assegni – che altrimenti sarebbero assolutamente lecite, ma che, in quanto dirette ad aggirare la libera e normale esecuzione dell’attività posta in essere, assumono rilevanza penale. Inoltre, stante la fungibilità del denaro non può dubitarsi che il deposito in banca di “denaro sporco” realizzi automaticamente la sostituzione di esso, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante la stessa quantità di denaro depositato.

A tanto si aggiunga che, essendo il reato di ricettazione punito in maniera meno rigorosa rispetto alla fattispecie in esame, nel caso all’attenzione della Corte, come non di rado accade, la difesa ha specularmente accreditato l’ipotesi che i versamenti fossero stati effettuati al fine di monetizzare il corrispettivo e, dunque, con concreto intento di lucro, integrando la condotta dell’imputato gli elementi costitutivi richiesti dall’art. 648 cod.pen.

Sul punto, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità, gli ermellini hanno statuito che <<il delitto di riciclaggio si distingue da quello della ricettazione innanzitutto per l’idonità della condotta ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, e poi per l’elemento soggettivo, che consiste nel primo nel dolo generico, mentre nella ricettazione fa riferimento al dolo specifico dello scopo di lucro>>.

La Suprema Corte ha ritenuto perciò nel caso in esame che le somme ricevute dall’imputato attraverso diversi trasferimenti di assegni circolari, peraltro non corredati da idonea documentazione di alcun titolo giuridico che ne giustificasse sotto il profilo legale il passaggio, fossero comportamenti sintomatici della piena consapevolezza della provenineza illecita del denaro e del conseguente dolo generico di trasformazione della cosa per  impedirne l’identificazione.

Cass. pen. Sez. II, Sent., 13-03-2015, n. 10746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente –

Dott. GALLO Domenico – Consigliere –

Dott. CERVADORO Mirella – rel. Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 921/2010 CORTE APPELLO di BOLOGNA, del 04/02/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 21/11/2014 la relazione fatta dal Consigliere Dott. MIRELLA CERVADORO;

Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, nella persona del Dott. Baldi Fulvio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito il difensore avv. Nannini Carlo che ha concluso chiedendo, in primo luogo, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata sulla scorta degli atti depositati con la memoria del 13.11.14; in subordine, chiede l’accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza del 29.10.2009, il Gup presso il Tribunale di Forlì dichiarò, a seguito di rito abbreviato, B.L. responsabile del reato di riciclaggio di cui all’art. 648 bis c.p. per aver compiuto operazioni tali da ostacolare l’identificazione della provenienza e trasferito (e subito dopo prelevato) somme di danaro (pari a L. 1.303.404.000) provenienti dal delitto di dichiarazione infedele, di omessa dichiarazione, di occultamento e distruzione di documenti contabili D.Lgs. n. 74 del 2000, ex artt. 4, 5, e 10 e di appropriazione indebita aggravata, su conti riferibili a lui e ai figli, provenienti da una società inesistente che fungeva da società cartiera, poichè priva di contabilità, operatività, sede e reale rapporto legale, e – concesse le attenuanti generiche, diminuita la pena per la scelta del rito – lo condannò alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 4000,00 di multa.

Avverso tale pronunzia propose gravame l’imputato, e la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 4.2.2014, confermava la decisione di primo grado.

Dalla ricostruzione dei fatti di cui alle sentenze di merito emerge che, in data 23.2.2000, B.L. ebbe ad effettuare un versamento, sul proprio conto corrente personale acceso presso la B.N.A. di Forlì, di 61 assegni circolari, tutti emessi su c/c intestati alla MPB srl (società di fatto inesistente, in quanto priva di qualsiasi struttura e contabilità) nei confronti di terze persone (con nomi di fantasia) e da costoro apparentemente girati a favore di B. per la cifra complessiva di L. 303.400.000.

Ulteriori 750.000.000 di lire in assegni circolari, addebitati sempre sul conto della M.P.B. s.r.l., venivano girati dai primi intestatari al B. e da questi versati sul conto sanmarinese intestato al FIN Broker s.a., società di cui l’imputato era presidente ed amministratore delegato, e su quelli intestati ai due figli dell’imputato. Tutti gli assegni circolari venivano emessi dalla M.P.B. s.r.l senza clausola di non trasferibilità, per importi inferiori ai 20.000.000 di lire, e versati tutti in un arco temporale molto ristretto. Subito dopo i versamenti venivano effettuati prelievi in contanti per somme affatto simili a quanto versato.

Ricorre per cassazione il difensore dell’imputato deducendo: 1) erronea applicazione dell’art. 20 c.p.p. ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) per difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria italiana, in quanto il reato si è perfezionato in San Marino. Gli assegni sono stati infatti posti all’incasso con versamento su un conto sanmarinese intestato alla società Fin Broker, e solo i reati fiscali presupposti sono stati commessi in Italia. La circostanza che gli assegni fossero stati emessi da una società avente sede in Italia non implica compilazione e consegna al B. in Italia; 2) erronea applicazione dell’art. 648 bis c.p. ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti (riciclaggio e non ricettazione).

Se infatti non può dubitarsi che il versamento in banca di danaro contante, stante la fungibilità del bene, ne realizzi automaticamente la sostituzione – con integrazione del delitto di riciclaggio – lo stesso non può automaticamente dirsi per l’attività di versamento, ed eventuale successiva monetizzazione di assegni. In tale azione manca una condotta idonea ad ostacolare l’accertamento della reale origine della res, atteso che la provenienza del titolo di credito resta comunque ricavabile dal numero di serie dello stesso. E nella fattispecie, come emerge dalla consulenza tecnica svolta nell’ambito del procedimento penale n. 5168/01 della Procura della Repubblica di Torino non si è verificato alcun trasferimento di ingenti capitali da un fiduciario ad un altro.

E quindi non vi è stata alcuna attività dissimulatoria; 3) mancanza e manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e) in relazione ai motivi d’appello rubricati sub nn.2 e 3. La Corte ha affermato la responsabilità dell’imputato motivando esclusivamente sulla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, così trascurando le argomentazioni difensive e l’analisi dell’elemento psicologico del reato. Nel secondo motivo d’appello si evidenziava che, nella maggior parte dei casi, i versamenti degli assegni di cui all’imputazione non erano stati seguiti da prelevamenti per importi superiori e che, di conseguenza, non era affatto individuabile una percentuale costante tra importi versati e importi prelevati o accantonati. Tale circostanza avrebbe dovuto indurre a riconoscere nelle azioni contestate finalità diverse da quelle del riciclaggio. Nell’atto di appello si dava, quindi, rilievo al fatto che il versamento dei titoli di credito fosse avvenuto in parte anche sui conti correnti personali dell’imputato e di quelli dei suoi figli, persino con modalità palesemente anzi grossolanamente inidonee ad aggirare la normativa antiriciclaggio. Si lamentava altresì (motivo n.3) che fosse destituita di fondamento la ritenuta vocazione riciclatoria della condotta del B. e, invece, specularmente, accreditata l’ipotesi che i versamenti fossero stati effettuati al fine di monetizzare il corrispettivo e, dunque, con concreto intento di lucro. Scopo che costituisce elemento essenziale della fattispecie di cui all’art. 648 c.p., nella quale si chiedeva che i fatti venissero riqualificati. E su tali motivi la Corte ha risposto in modo insufficiente e totalmente illogico; 4) l’errata applicazione di norme della legge penale e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) in ordine alla mancata concessione dell’ attenuante di cui all’art. 648 bis c.p., comma 3.

Nei motivi era stato evidenziato che, pur essendo la mancanza di scritture contabili riconducibile tanto all’ipotesi dell’occultamento/distruzione quanto a quella dell’omessa tenuta, quest’ultima ipotesi appariva maggiormente probabile nel caso di specie essendo la M.P.B. s.r.l. società di fatto inesistente. La previsione della circostanza attenuante di cui all’art. 648 bis c.p., comma 3 costituisce elemento negativo dell’ipotesi ordinaria di riciclaggio, sì da imporre, per la configurabilità di quest’ultima, un accertamento più approfondito rispetto alla mera provenienza delittuosa, che deve risultare qualificata dalla presenza di reati presupposti di gravità superiore rispetto a quelli richiamati dal comma 3. La motivazione della Corte sul punto è insufficiente e illogica.

Allega al ricorso, oltre all’atto di appello e alla nomina del difensore, l’estratto della consulenza tecnica svolta dalla Procura della Repubblica di Torino, e la sentenza del Gup del Tribunale di Forlì del 29.10.2009.

Chiede pertanto l’annullamento della sentenza.

Il data 13.11.2014, il difensore del ricorrente deposita memoria, nella quale si rileva che i reati ipotizzati d’iniziativa dalla Guardia di Finanza (D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4, 5 e 10) sono stati sin dall’origine dalla Procura di Bergamo diversamente qualificati, essendosi proceduto per i delitti puniti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 2 e 8, e che il procedimento iscritto nei confronti di S.D.U., A.D., C. S., P.M. è stato archiviato (nei confronti del P., indagato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, per essere i reati estinti per morte della persona indagata).

Allega alla memoria richiesta e provvedimento di archiviazione del procedimento n. 5752/02 nonchè copia delle iscrizioni di cui all’art. 5752/02.

 

Motivi della decisione

 

  1. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Pienamente coerente con la prospettazione, riscontrata dalla correlativa base probatoria del quadro storico fattuale delle sentenze di merito (secondo cui il B. si è “interposto a valle dei versamenti e prelievi di denaro effettuati – senza alcuna documentazione o possibile ragione lecita – dalla M.P.B. srl così ostacolandone oggettivamente la tracciabilità e la ricostruibilità), deve ritenersi il rigetto dell’eccezione difensiva sollevata in ordine all’ipotizzato difetto di giurisdizione, in quanto la società emittente i titoli poi versati dal B. (sui conti correnti facenti capo a lui e ai suoi figli) aveva sede e domicilio fiscale in Italia, e la banca su cui erano tratti gli assegni circolari in questione aveva sede e filiale operativa in Italia. Secondo la consolidata linea interpretativa tracciata da questa Suprema Corte, ai fini dell’affermazione della giurisdizione italiana in relazione a reati commessi in parte all’estero, è infatti sufficiente che nel territorio dello Stato si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero (v.

Cass. Sez. 6, Sent. n. 16115/2012 Rv. 252507; Sez. 4, Sent. n. 44837/2012 Rv. 254968; Sez. 6, Sent. n. 13085/2013 (dep. 20/03/2014) Rv. 259486, in tema di riciclaggio commesso in parte all’estero).

Risulta, infatti, pacificamente accertato che gli assegni siano stati (almeno in parte) ricevuti in Italia, come si rileva dal fatto non solo che la società emittente i titoli aveva sede legale e fiscale in Italia, e che la banca su cui erano tratti gli assegni circolari in questione (Banca Popolare di Brescia) aveva sede e filiale operativa in Italia, ma altresì dalla circostanza che parte degli assegni circolari, emessi sul medesimo conto corrente della M.P.B. srl, sono stati posti all’incasso su un conto del B. in Italia.

  1. Infondate anche le censure del secondo motivo, relative alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di riciclaggio che argomentano, in particolare, sulla tracciabilità dei titoli di credito ricevuti dal B..

Secondo l’insegnamento di questa Corte, integra il reato di riciclaggio, ex art. 648 bis c.p., il compimento di operazioni volte non solo ad impedire in modo definitivo, ma anche a rendere difficile l’accertamento della provenienza del denaro, dei beni o delle altre utilità, attraverso un qualsiasi espediente che consista nell’aggirare la libera e normale esecuzione dell’attività posta in essere (Cass. Sez. 2, Sent. n. 1422/2012 Rv. 254050; Sez. 2, Sent. n. 2818/2006 Rv. 232869; Sez. 6, Sent. n. 16980/2007 (dep. 24/04/2008) Rv. 239844). Considerato che il delitto di riciclaggio è a forma libera e potenzialmente a consumazione prolungata, attuabile anche con modalità frammentarie e progressive, questa Corte ha altresì statuito che integra di per sè un autonomo atto di riciclaggio qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi successivo a precedenti versamenti, ed anche il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato, ed acceso presso un differente istituto di credito (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 546/2011 Rv. 249446), e ciò pur in presenza di una completa tracciabilità dei flussi finanziari, atteso che, stante la natura fungibile del bene, per il solo fatto dell’avvenuto deposito, il denaro viene automaticamente sostituito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante il mero tantundem (cfr. Cass. Sez. 2, Sent. n. 47375/2009 Rv. 246434; Sez. 2, Sent. n. 13155/1986 Rv. 174380). Infatti, in tale fattispecie delittuosa non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, essendo sufficiente che essa sia anche solo ostacolata (Cass. Sez. 2, Sent. n. 1422/2012, dep. 2013, Rv. 254050; Sez. 2, Sent. n. 3397/2012, dep. 2013, Rv. 254314).

Tanto premesso, rileva il Collegio che, nella fattispecie, è indiscusso che gli assegni circolari emessi su c/c intestati alla MPB a favore di diversi soggetti, e quindi girati e consegnati al B. in virtù di un rapporto fiduciario, venivano versati su conti correnti dell’imputato in Italia e all’estero, “di una propria società – peraltro avente sede a S.Marino (con la conseguente e ben nota opacità di tracciabilità) e dei propri figli, con quasi immediato prelievo delle somme così movimentate” (v.pag.5 della sentenza impugnata). Non v’è dubbio, pertanto, che le suddette operazioni di trasferimento degli ingenti capitali di cui ai numerosi assegni circolari, versati con le descritte modalità, integrano gli estremi della condotta prevista e punita dall’art. 648 bis c.p.; tali operazioni, prive di causa e di documentazione, nonchè di giustificazione alcuna da parte del B. (che in una memoria allegata al verbale di interrogatorio, in cui si avvaleva della facoltà di non rispondere, assumeva addirittura di ignorare il nominativo della M.P.B., di cui aveva movimentato somme ampiamente superiori al miliardo di lire), erano infatti certamente idonee a far perdere le tracce dei flussi finanziari in questione, e a ostacolare l’accertamento della provenienza illecita del denaro successivamente versato al beneficiario reale dell’operazione, consentendo altresì ai beneficiari reali delle operazioni di percepire denaro “pulito” in contanti in luogo dei capitali di cui agli assegni circolari chiaramente provenienti da delitto. Non può dubitarsi, pertanto, della sussistenza dell’elemento oggettivo della condotta punibile per il reato di riciclaggio, nè la motivazione sul punto rivela alcuno dei vizi di illogicità denunciati in ricorso.

  1. Parimenti infondato è il terzo motivo sulla qualificazione giuridica dei fatti, volto a censurare l’assenza di motivazione circa l’elemento psicologico del reato, e a sostenere la sussistenza del delitto di ricettazione (art. 648 c.p.), anzichè quello di riciclaggio (art. 648 bis c.p.), sul presupposto che l’imputato avesse il dolo specifico dello scopo di lucro.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi deposita in banca danaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura fungibile del bene, in tal modo lo stesso viene automaticamente sostituito con danaro “pulito” (Cass. Sez. 6, n. 43534/2012, Rv. 253795), senza necessità – come già evidenziato – che le operazioni compiute siano volte ad impedire in modo definitivo l’accertamento della provenienza del denaro, essendo sufficiente a integrare il reato anche operazioni volte a rendere difficile tale accertamento. E’ stato quindi reiteratamente precisato che il delitto di riciclaggio si distingue da quello di ricettazione innanzitutto per quanto concerne l’elemento materiale, che si caratterizza nel riciclaggio per l’idoneità della condotta ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, e poi per l’elemento soggettivo, che consiste nel primo nel dolo generico, mentre nella ricettazione fa riferimento al dolo specifico dello scopo di lucro (Cass. Sez. 2, Sent. n. 35828/2012, Rv. 253890).

Prima ancora di analizzare l’elemento soggettivo, correttamente i giudici del merito hanno proceduto all’inquadramento delle condotte dell’ imputato nella fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p. Il problema dell’elemento soggettivo non può che porsi dopo la corretta individuazione della condotta, ritenuta dalla Corte idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza del denaro, con congrua e logica motivazione che rende pienamente ragione delle conclusioni raggiunte in punto di dolo. A riguardo, giudici hanno osservato che date le modalità dell’azione, gli importi elevati delle somme, il prevenuto non poteva ignorare che i capitali provenivano da reato, ovvero da reati fiscali, così come del resto dallo stesso confidato al direttore generale della banca di San Marino ove era acceso il conto corrente della Fin Broker (v.pag.6).

E’ poi circostanza pacifica che il B. abbia ricevuto, con più trasferimenti, senza documentazione di alcun titolo giuridico che giustifichi sotto il profilo legale il passaggio, le ingenti somme di denaro di cui agli assegni circolari in questione. Non v’è dubbio che si tratta di comportamenti sintomatici della piena consapevolezza della provenienza illecita del denaro e del conseguente dolo generico di trasformazione della cosa per impedirne l’identificazione (cfr Cass. Sez. 2, Sent. n. 50950/2013 Rv. 257982). Rileva, a riguardo, il Collegio che, in tema di riciclaggio, la scienza dell’agente in ordine alla provenienza dei beni da delitti può essere desunta da qualsiasi elemento e sussiste quando gli indizi in proposito siano così gravi ed univoci da autorizzare la logica conclusione che i beni ricevuti per la sostituzione siano di derivazione delittuosa specifica, anche mediata (v. Cass. Sez. 2, Sent. n. 47375/2009 Rv.

246434; Sez. 6, Sent. n. 9090/1995 Rv. 202312). Del resto, secondo i più recenti arresti di questa Corte nel delitto di riciclaggio, come nel delitto di ricettazione, l’elemento soggettivo può essere integrato anche dal dolo eventuale quando l’agente si rappresenta la concreta possibilità, accettandone il rischio, della provenienza delittuosa del denaro ricevuto ed investito (Cass. Sez. 2, Sent. n. 8330/2013 (dep. 21/02/2014) Rv. 259010).

Correttamente la Corte ha poi ritenuto che le imprudenze compiute dall’imputato nel versare e ritirare contestualmente o quasi somme ampiamente superiori a quelle che potevano sfuggire ai controlli antiriciclaggio possano valere ad escludere la volontà e consapevolezza di compiere azioni che in sè erano chiaramente sintomatiche di illiceità, come emergeva dai plurimi gravi, precisi e concordanti indizi illustrati in sentenza. Nè può essere esclusa la sussistenza del delitto in contestazione, così come vorrebbe il ricorrente, per “l’omessa individuazione di un compenso per la condotta asseritamente riciclatoria compiuta dal B.”, che lasciava spazio a una ricostruzione della vicenda in termini alternativi rispetto al delitto previsto dall’art. 648 bis c.p. essendo “accreditata l’ipotesi che i versamenti fossero stati effettuati al fine di monetizzare il corrispettivo e, dunque, con concreto intento di lucro”. Sul punto, la Corte territoriale ha logicamente motivato e ritenuto che la mancanza di prove circa il corrispettivo percepito dal B. non vale ad escludere anche sotto il profilo soggettivo la sussistenza del delitto in contestazione, in quanto sia l’elemento materiale del profitto che lo scopo di lucro non costituiscono elementi essenziali della fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p.. E’ infine indubbio che i versamenti fossero stati effettuati al fine di monetizzare gli importi di cui agli assegni circolari in parola, e l’elemento essenziale e dirimente ai fini della sussistenza del reato e alla corretta qualificazione giuridica dei fatti è proprio la rammentata idoneità della condotta ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene; in presenza di tale condotta, il concreto intento di lucro, supposto esistente dalla difesa, può ben essere invocato a rafforzare l’elemento psicologico del reato di riciclaggio (con dolo generico e non specifico), ma non invece per escluderlo, così come vorrebbe il ricorrente, sulla base del presupposto che il dolo specifico, e quindi il fine di lucro, è richiesto per la sussistenza del reato di ricettazione, e non anche per quello di riciclaggio.

Nè in senso contrario può essere utilmente invocata la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 2, Sent. n. 35828/2012 Rv.

253890) che, in una fattispecie ben diversa (nella quale agli imputati era contestato di avere formato ed usato documenti di identità falsi recanti le generalità dei beneficiari di assegni ricettati), ha ritenuto la sussistenza del delitto di ricettazione anzichè quello di riciclaggio, in quanto la condotta era finalizzata soltanto alla riscossione di titoli e non era idonea ad impedire l’individuazione del reato presupposto ovvero la provenienza furtiva dell’assegno, comunque ricavabile del numero di serie dello stesso.

E’ infatti del tutto evidente che – nel caso di specie – gli assegni circolari sono di provenienza lecita e l’attività propedeutica al cambio o alla monetizzazione degli assegni medesimi era tesa ad ostacolare non la provenienza del tutto lecita degli assegni, bensì l’identificazione della provenienza (illecita) delle somme dagli stessi portate, transitate dapprima – senza causa alcuna – sui conti della MPB s.r.l e quindi versate su altri conti tramite il fiduciario B..

  1. Anche il quarto motivo è infondato. Orbene, per antica e costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, da cui non si ritiene di doversi discostare, non è necessario che il delitto presupposto (rispetto sia alla ricettazione sia al riciclaggio) risulti accertato giudizialmente, e pertanto ai fini della configurabilità del reato di riciclaggio non si richiede l’esatta individuazione e l’accertamento giudiziale del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso risulti, alla stregua degli elementi di fatto acquisiti ed interpretati secondo logica, almeno astrattamente configurabile (v. Cass. Sez. 6, Sent. n. 28715/2013 Rv. 257206; Sez. 6, Sent. n. 495/2008, (dep 2009) Rv. 242374; Sez. 5, Sent. n. 36940/2008, Rv. 241581; Sez. 2, Sent. n. 546/2011, Rv. 249444; Sez. 4 n. 11303/97, dep. 9.12.97 Rv. 209393), e che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente per il riciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza (v. Sez. 2, Sentenza n. 7795 del 19/11/2013 (dep. 19/02/2014) Rv. 259007).

Circa il reato presupposto, la Corte territoriale ha evidenziato la circostanza della mancanza di documentazione contabile logicamente riferibile all’occultamento o distruzione della stessa, condotte previste dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10, come dalle annotazioni della polizia giudiziaria in atti; e – poichè il reato presupposto è costituito da un delitto ostativo alla concessione dell’attenuante di cui all’art. 648 bis c.p., comma 3 in quanto sanzionato con pena non inferiore nel massimo a cinque anni – ha rigettato la richiesta applicazione dell’attenuante in questione.

Nè può essere automaticamente esclusa la configurabilità del delitto di riciclaggio, come dedotto dal ricorrente nei motivi aggiunti, per effetto della intervenuta archiviazione nei confronti di quattro indagati, in ordine al delitto presupposto (rectius ai delitti presupposti), trattandosi di provvedimento non suscettibile di giudicato, e non di sentenza irrevocabile. A ciò aggiungasi che nei confronti dell’ultimo reale (quello subentrato nella carica aveva il nome palesemente e acclaratamente di fantasia di V. L.) rappresentante legale della MPB srl, P.M., alias P.M. iscritto nel registro degli indagati in data 10.6.2002, l’archiviazione è stata chiesta e quindi disposta non per motivi di merito, bensì per essere i reati estinti per morte dell’indagato in data 25.12.2003.

Per quanto riguarda la produzione dei documenti in questione effettuata con memoria depositata in cancelleria il 13.11.2014 è il caso di aggiungere che la produzione è peraltro inammissibile, non essendo consentita nel giudizio di legittimità la produzione di nuovi documenti, salvo il caso in cui essa non sia stata possibile nei precedenti gradi di giudizio e concerna documenti non attinenti al merito e dai quali possa derivare l’applicazione dello “ius superveniens”, di cause estintive o di disposizioni più favorevoli (cfr. Cass. Sez. 3, Sent. n. 27417/2014 Rv. 259188; Sez. 5, Sent. n. 45139/2013 Rv. 257541). E nel caso di specie nessun dubbio che i documenti in questione attengano comunque al merito.

Il ricorso, per l’infondatezza o inammissibilità delle censure articolate nei motivi che lo compongono, va pertanto rigettato.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che rigetta il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2015