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La rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

La rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti

Con la sentenza n. 38364 del 22/09/2015 la sez. III della Corte di Cassazione ritorna sul problema relativo alla rilevanza penale della condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti ed alla correlata questione inerente alla valutazione della offensività in concreto di tale condotta.

In questa sede, la III sez. condivide la posizione assunta dalle Sezioni Unite n. 28605 del 24/04/2008 secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione ad uso personale (nel caso di specie due piante di marijuana alte circa 60 cm, dalle quali l’imputato asseriva di estrarre la quantità idonea a lenire i dolori causati da una lombosciatalgia).

La modesta estensione della coltivazione, continua la Suprema Corte, la qualità delle piante, nonché il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena. Il legislatore ha, infatti, attribuito a tale condotta sempre e comunque una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle piante, al fine di escludere in radice la possibilità che il ciclo della droga possa “autoalimentarsi”.

Da ultimo, la Cassazione ribadisce che la condotta di coltivazione integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato, già in astratto, dalla necessaria offensività. Spetterà poi al giudice verificare se la condotta de qua sia assolutamente idonea, in concreto, a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 07-07-2015) 22-09-2015, n. 38364

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente –

Dott. DI NICOLA Vito – Consigliere –

Dott. PEZZELLA Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.S.V. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1646/2013 CORTE APPELLO di MILANO, del 03/04/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 07/07/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. PEZZELLA VINCENZO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. MAZZOTTA Gabriele, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Udito il difensore Avv. MORONI Roberto, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

 

Svolgimento del processo

  1. La Corte di Appello di Milano, pronunciando nei confronti di D. S.V. in data 3.4.2014, in parziale riforma della sentenza emessa dal GM presso il Tribunale di Vigevano il 9.2.2011, rideterminava la pena in mesi 4 di reclusione ed Euro 800 di multa, confermando nel resto la sentenza impugnata.

Il giudice di prime cure, all’esito di giudizio ordinario, ritenuta l’ipotesi lieve di cui del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, nonchè riconosciute le circostanze attenuanti generiche, aveva condannato l’imputato alla pena di mesi 8 di reclusione ed euro 2000 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali, con confisca e distruzione di quanto in sequestro perchè, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltivava sostanza stupefacente di tipo marijuana, in particolare all’interno del cortile della propria abitazione coltivava tre piante di marijuana di cui una alta m. 1,2 e due alte cm. 60. In (OMISSIS), con recidiva specifica.

  1. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, personalmente, D.S.V., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.
  2. Ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c, in relazione al punto 1) dell’impugnata sentenza, per violazione artt. 63, 350 e 191 c.p.p..

Il ricorrente ricostruisce le risultanze istruttorie in relazione all’ascrivibilità del fatto contestato all’imputato.

Il giudice di primo grado avrebbe ritenuto fondata la penale responsabilità, pur in mancanza di accertamenti sulla proprietà del cortile dove erano rinvenute le piante, sul presupposto che il D. S. facesse uso di canapa e oppiacei a scopo terapeutico.

La corte di appello, allo specifico motivo di gravame proposto sul punto, avrebbe risposto ritenendolo superabile in quanto nel verbale di sequestro del (OMISSIS), il D.S. avrebbe dichiarato di essere stato lui a piantare le piante”.

Deduce, quindi, il ricorrente che dette dichiarazioni sarebbero state rese in sede di indagini senza la presenza del difensore, pertanto le stesse dichiarazioni risulterebbero inutilizzabili per violazione dell’art. 63 c.p.p..

  1. Ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c, in relazione al punto 2) dell’impugnata sentenza, per violazione del diritto di difesa previsto dall’art. 364 c.p.p. e dall’art. 360 c.p.p. e conseguente nullità della sentenza per utilizzazione di prove acquisite illegittimamente.

Il ricorrente deduce l’inutilizzabilità degli accertamenti tecnici operati dall’A.R.P.A. in violazione dell’art. 360 c.p.p..

Detto ente avrebbe svolto accertamenti irripetibili senza avvisare l’indagato e il difensore dello stesso.

Gli accertamenti sarebbero stati svolti secondo il disposto dell’art. 223 disp. att. c.p.p., che regola lo svolgimento di attività tecniche in campo amministrativo e non può essere applicato quando vi sia un’indagine penale in corso, dovendo applicarsi in tal caso l’art. 360 c.p.p..

Del resto anche l’art. 364 c.p.p., in relazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 87, comma 2, prevede il dovere di informazione.

Nel caso di specie, invece, nessun avviso è stato fatto alla difesa, violando ad avviso del ricorrente ogni diritto di difesa.

La violazione delle garanzie difensive comporterebbe la nullità della sentenza che avrebbe utilizzato prove acquisite illegittimamente.

  1. Ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c ed e), in relazione al punto 3) dell’impugnata sentenza, per violazione dell’art. 63 c.p.p..

La sentenza impugnata avrebbe rigettato il motivo di gravame fondato sulla richiesta di perizia delle piante sequestrate travisando la motivazione del giudice di primo grado, che aveva ritenuto la stessa perizia impossibile e non inutile come interpreta il giudice di appello.

Il testo della sentenza di primo grado sarebbe stato palesemente interpretato in maniera errata dal collegio territoriale.

  1. Omessa motivazione della sentenza impugnata circa la mancanza di offensività della condotta contestata – travisamento dei fatti e manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ex art. 606 c.p.p., lett. e).

La corte di appello avrebbe completamente omesso di motivare sul motivo di impugnazione fondato sull’offensività concreta della condotta consistente nella coltivazione di tre piantine di marijuana, poste a distanza in diverse aiuole di un cortile.

Non sarebbe stata rinvenuta alcuna organizzazione produttiva.

La sentenza impugnata avrebbe affermato che qualunque coltivazione sarebbe punibile, senza spiegare perchè, nel caso di specie, sia stata individuata l’esistenza di una piantagione, senza la presenza nemmeno di un innaffiatoio e di una vanga.

Nel provvedimento non sarebbe stato motivato cosa in concreto costituisca coltivazione e cosa in concreto sia idoneo a ledere il bene giuridico tutelato dal reato di coltivazione.

Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio accogliendo i primi tre motivi del ricorso o senza rinvio per il quarto motivo, in ogni caso con i provvedimenti di legge ritenuti più opportuni, ivi compreso il rinvio al giudice di secondo grado per l’esecuzione della perizia sul campione di foglie sequestrato.

 

Motivi della decisione

  1. I proposti motivi sono infondati e pertanto il proposto ricorso va rigettato.
  2. Manifestamente infondato, in primis, è il motivo sub a.

E’ del tutto evidente, infatti, che allorquando fu richiesto all’imputato, come ad altri, di chi fossero le piantine, i carabinieri -che peraltro si trovavano in loco per tutt’altro motivo- non potevano essere a conoscenza che fossero le sue o di altri.

Il rilevamento delle piantine di marijuana è stato del tutto casuale.

Come ricorda il Tribunale di Vigevano, infatti, intorno alle ore 10.00 de (OMISSIS), i Carabinieri della locale Stazione si recavano presso una corte sita nel territorio de Comune di (OMISSIS) al fine di effettuare un sopralluogo, essendo stato segnalato un furto.

Nella circostanza i militari notavano la presenza di due piante, apparentemente di marijuana ed alte circa 60 centimetri ciascuna, nelle aiuole comuni. Subito dopo i Carabinieri rinvenivano, nel giardino prospiciente l’abitazione di proprietà de D.S., in un’aiuola ben curata e recintata, una analoga pianta con infiorescenza alta un metro e venti circa. I militari procedevano ad estirpare le piante, che venivano poste sotto sequestro, ad effettuare rilievi fotografici (e il Maresciallo Z.A., escusso in sede dibattimentale, riconosceva nel materiale fotografico riversato in atti, lo stato dei luoghi all’atto del sopralluogo effettuato) ed a sentire in sede di spontanee dichiarazioni l’odierno imputato.

Ebbene, questa Corte di legittimità, sul punto, ha precisato -e intende qui ribadire- che ai fini della inutilizzabilità assoluta delle dichiarazioni rese senza assistenza difensiva dal soggetto che avrebbe dovuto essere sentito in qualità di persona sottoposta alle indagini, rileva unicamente la posizione di indagato al momento dell’assunzione delle informazioni, senza che il giudice possa compiere alcuna valutazione “ex ante” volta ad escludere la colpevolezza del dichiarante per il reato astrattamente ipotizzabile a suo carico (cfr. Sez. 3^, n. 1233 del 2.10.2012, Bemasconi ed altri, rv. 254176).

In altra pronuncia si è peraltro precisato che le dichiarazioni spontanee rese dall’indagato nell’immediatezza del fatto, pur se sollecitate dagli ufficiali di polizia giudiziaria, non sono assimilabili all’interrogatorio in senso tecnico in quanto quest’ultimo presuppone la contestazione specifica del fatto oggetto dell’imputazione ed è costituito da domande e risposte raccolte in verbale sottoscritto dall’interessato, sicchè non devono essere precedute dall’invito alla nomina del difensore e dall’avvertimento circa la facoltà di non rispondere (sez. 4^, n. 15018 del 25.2.2011, Amata, rv. 250228).

Questa Corte ha poi precisato, di recente, che l’inutilizzabilità assoluta, ai sensi dell’art. 63 c.p.p., comma 2, delle dichiarazioni rese da soggetti i quali fin dall’inizio avrebbero dovuto essere sentiti in qualità di imputati o di persone sottoposte a indagini, richiede che a carico di tali soggetti risulti l’originaria esistenza di precisi, anche se non gravi, indizi di reità e tale condizione non può automaticamente farsi derivare dal solo fatto che i dichiaranti risultino essere stati in qualche modo coinvolti in vicende potenzialmente suscettibili di dar luogo alla formulazione di addebiti penali a loro carico, (sez. 2^, n. 51732 del 19.11.2013, Carta e altri, rv. 258109) 3. Manifestamente infondato è anche il motivo fondato sulla necessità, in relazione agli accertamenti sulle piantine, che gli stessi venissero svolti con la procedura di cui all’art. 360 c.p.p..

Come ricordano i giudici del merito le piantine vennero inviate, per i necessari accertamenti tecnici, all’Arpa di Pavia. E la teste G.G., a tale riguardo, confermava in dibattimento di aver ricevuto dai Carabinieri di Candia Lomellina le piante sequestrate e, dopo aver esposto la tecnica di prelievo e di analisi, previo essiccamento, delle foglie, dichiarava che l’accertamento aveva evidenziato il principio attivo Delta9-THC in percentuale del 3,5%, equivalente ad una quantità totale di milligrammi 158.

La norma invocata di cui all’art. 360 c.p.p., in realtà, non si attaglia al caso in esame in quanto questa Corte ha più volte precisato che la consulenza disposta su un campione di sostanza stupefacente preordinata ad accertarne l’efficacia drogante non costituisce accertamento tecnico irripetibile, in quanto detto campione conserva nel tempo le intrinseche caratteristiche e può, pertanto, ove necessario, essere sottoposto a nuovo esame; ne deriva che detta attività rientra nell’ambito degli accertamenti disposti ex art. 359 c.p.p., che non richiedono gli avvisi al difensore (così sez. 4^, n. 34176 del 19.7.2012, Minniti, rv. 253529 proprio in un caso di piantine di canapa indiana); conf. sez. 4^, n. 28195 del 29.4.2009, Matarazzo ed altro, rv. 244688).

  1. Peraltro, va osservato, che la circostanza che si trattasse di marijuana non è stata mai messa in discussione dall’imputato. Ed anzi, tutta la linea difensiva è stata volta soltanto ad affermarne l’uso personale.

In tal senso i testimoni della difesa. Gi.Cl., medico curante dell’odierno ricorrente, dichiarava che il D.S. risultava affetto, da diversi anni, da una severa forma di lombosciatalgia, originata da un’ernia discale, che comporta sintomatologia dolorosa lungo il nervo sciatico, all’atto della deambulazione, con conseguente impotenza funzionale. Il teste aveva poi riferito che il paziente rifiutava la somministrazione di farmaci tradizionali, quali antidolorifici ed antinfiammatori, ed aveva confermato di aver sottoscritto, a richiesta dell’imputato, i certificati medici prodotti dal difensore nei quali si leggeva che il paziente era “affetto da ernia discale in sede lombare.., ha espresso atteggiamenti riluttanti e contrari ad avvalersi di specialità medicinali come ad esempio antinfiammatorì in uso medico corrente e contenti/i nel repertorio farmaceutico del sistema sanitario nazionale”.

La teste T.M., dal suo canto, dopo aver dichiarato di conoscere il D.S. da circa quindici anni, aveva riferito di essere a conoscenza del fatto che lo stesso era stato sottoposto ad intervento chirurgico per problemi alla schiena, ma di non aver mai visto l’imputato assumere terapie antidolorifiche. Aveva poi aggiunto che il D.S. era solito curarsi attraverso l’assunzione di tisane a base di marijuana, che lei stessa, in qualche occasione, aveva preparato e che l’imputato aveva la disponibilità della sostanza nella propria abitazione.

F.P. dopo aver dichiarato di conoscere il D.S. da almeno dieci anni, aveva riferito a sua volta di aver visto l’imputato assumere canapa indiana a scopo terapeutico.

Pertanto, al di là delle dichiarazioni autoindizianti dell’imputato e degli stessi accertamenti tecnici disposti sulle piante, il rinvenimento della pianta con infiorescenza alta 1 metro e 20 centimetri, in un giardino di pertinenza dell’abitazione di proprietà dell’odierno ricorrente, sono state le stesse dichiarazioni rese in dibattimento dai testi a discarico a confermare l’abituale utilizzo e la materiale disponibilità dello stupefacente da parte del D.S..

Si dirà poi, di qui a poco, dell’irrilevanza, a fronte del provato effettivo uso -e quindi della capacità drogante dello stupefacente ricavato dalle piante in questione- della quantificazione della sostanza stessa, a fronte della condotta di coltivazione. Derivandone la condivisibilità dell’opzione dei giudici di merito dell’aver ritenuta non necessaria la perizia tossicologica sulle foglie.

  1. Si perviene, pertanto al punto nodale dell’odierno decidere: se ed in che termini, a fronte di una c.d. coltivazione domestica di stupefacente il giudice sia chiamato ad operare una valutazione in concreto della offensività della condotta.

Non sfugge al Collegio che vi sono alcune pronunce di questa Corte di legittimità che, interpretando in maniera estensiva il concetto di offensività in concreto della condotta (sez. 4^, n. 25674 del 17.2.2011, Marino, rv. 250721, sez. 6^, n. 33385 dell’8.4.2014, Piredda, rv. 260170; Sez. 6^, n. 22110 del 2.5.2013, Capuano, rv.

255733) pur a fronte di piantine in grado di produrre uno stupefacente avente effetto drogante, sono pervenute o hanno ratificato una sentenza di assoluzione perchè il fatto non sussiste o perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato, ritenendo non integrato il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Ritiene tuttavia il Collegio di non condividere tale impostazione e che pertanto che nel caso che ci occupa la Corte territoriale abbia correttamente operato nel porsi nel solco della pronuncia delle Sezioni Unite n. 28605 del 24.4.2008, D.S., rv. 239920 secondo cui costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale (conforme la sentenza gemella di cui Sez. U. 24.4.2008, Valletta, non massimata -cfr. Corte cost. n. 360 del 1995 e n. 296 del 1996).

Le Sezioni Unite si pronunciarono proprio in relazione al medesimo odierno imputato D.S.V. e al medesimo reato commesso negli stessi luoghi nel 2001, sette anni prima di quelli di cui al presente processo.

In quell’occasione la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 5 dicembre 2003, aveva confermato la sentenza resa in data 25.3.2003 dal Tribunale di Vigevano in composizione monocratica, che lo aveva dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, perchè, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltivava n. 7 piante di cannabis indica con titolo medio dello 0,21% pari a grammi 2,13 di principio attivo puro, accertato sempre in (OMISSIS) il 31.8.2001) e lo aveva condannato, ritenuta l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, e previo riconoscimento di circostanze attenuanti generiche prevalenti sulla contestata recidiva, alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di reclusione ed Euro mille di multa, disponendo la confisca e distruzione di quanto in sequestro.

Le piante tratte in sequestro nell’occasione erano risultate di cannabis e l’imputato aveva ammesso il fatto, precisando che il raccolto era destinato al suo esclusivo uso personale.

In punto di diritto, in quel caso la Corte meneghina aveva osservato che il reato contestato ha natura di reato di pericolo, alla cui configurabilità non osta l’eventuale insufficiente grado di tossicità del raccolto (precisando, peraltro, che nel caso di specie “la sostanza era idonea ed aveva efficacia drogante anche se nel momento del sequestro le piante non erano in piena maturazione”), nè la dimensione ridotta (domestica) della coltivazione.

Avverso tale sentenza l’imputato aveva proposto tempestivo ricorso per cassazione, deducendo motivazioni analoghe a quelle odierne e nell’occasione, rilevato che, in merito alla configurabilità del delitto contestato all’imputato, sussisteva un persistente contrasto giurisprudenziale, fu trasmessa alle Sezioni Unite proprio la questione controversa consistente nello stabilire “se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale “.

  1. Ebbene, Le Sezioni Unite presero le mosse dal rilevare che effettivamente sussisteva il contrasto e che vi era un orientamento prevalente che riteneva che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti fosse penalmente illecita, quale che fosse la destinazione del raccolto. In tal senso si riteneva che la destinazione ad uso personale non potesse assumere alcun rilievo, sia perchè difettava il nesso di immediatezza della coltivazione con l’uso personale, sia perchè non può determinarsi a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (sez. 4^, n. 10138 del 23.3.2006, Colantoni).

Le SS.UU ricordarono anche che, in tal senso, all’esito del referendum abrogativo del 1993, si era pronunciata, per la prima volta, la sez. 4^ con la sentenza 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale “l’attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall’uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del tutto distinte e il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 in applicazione dell’esito del referendum, non fa alcun riferimento all’attività di coltivazione” (principio ribadito dalla stessa sez. 6^ con le sentenze n. 100 del 5.1.1997, Garcea e n. 4209 del 5.4.2000, Reile).

Secondo i fautori di tale indirizzo ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano fa quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, poichè la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (sez. 4^, n. 46529 del 29.9.2004, Aspri ed altro). Conseguentemente la modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (sez. 4^, n. 4836 del 6.2.2004, Felsini e Sez. 6^, 9.6.2004, n. 31472, De Rimini).

Ancora sez. 4^, con la sentenza n. 4928/2001, C., aveva osservato che il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di maggiore pericolosità ed offensività insita nell’essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorchè non qualificate da una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità.

Pertanto il legislatore, delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell’impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale), non aveva dunque voluto sottrarre alla generale disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall’accertamento dell’esclusività della destinazione all’uso personale che alle stesse venga data, per l’immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie.

Alla stregua delle considerazioni anzidette i fautori della tesi maggioritaria disattendevano la tesi della equiparabilità della c.d.

“coltivazione domestica” alla detenzione per uso personale, poichè le due condotte sono “ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità” e affermavano che, stante la natura di reato di pericolo del correlato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purchè idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite da sanzioni di natura amministrativa, indicate nell’art. 75.

  1. Le stesse SS.UU 28605/2008 rilevavano, tuttavia, che tali affermazioni erano state comunque “temperate”, tenuto conto delle considerazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale, di cui si darà conto di seguito, dalla specificazione che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione fosse assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, ben poteva il giudice di merito escludere l’offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile (così sez. 4^, n. 15688 del 13.4.2001, Vicini; n. 37253 del 7.11.2002, Cantini; n. 23842 del 30.5.2003, Morrone; n. 4836 del 6.2.2004, Felsini; n. 8142 dell’8.3.2006, Fanfani; nonchè sez. 6^, n. 20938 del 6.6.2005,Bortoletto).

Sempre sez. 4^, con la sentenza 22037 del 10.6.2005, Gallob, aveva rilevato che, pure alla stregua del letterale disposto del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26 del, non è dato distinguere tra una coltivazione “di tipo tecnico-agrario” ed una coltivazione “domestica”. Veniva osservato, al riguardo, che è vero che l’art. 27 dello stesso D.P.R. fa riferimento anche alle “particelle catastali” ed alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, ed i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano, oltre che le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantità consentite”, le sanzioni in caso di mancata autorizzazione;

tali prescrizioni, però, riguardano la “autorizzazione alla coltivazione” e sono indicative, cioè, dei requisiti richiesti per ottenere detta autorizzazione. Del tutto configgente con la rado normativa sarebbe, però, la conclusione che, in mancanza della prescritta autorizzazione, concedibile solo in presenza dei requisiti indicati dalla legge, sarebbe in ogni caso consentita la coltivazione di piante di sostanze stupefacenti, quale che sia la loro quantità, purchè non messe a dimora in un terreno identificabile nelle sue particelle catastali e secondo le altre prescrizioni al riguardo indicate dalla legge.

Tale orientamento maggioritario era stato poi ribadito, successivamente all’entrata in vigore dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 (di conversione del D.L 30 dicembre 2005, n. 272) da sez. 4^, con le sentenze 40295 del 7.12.2006, Quaquero ed altro; n. 870 del 10.1.2008, Costa e da sez. 6^, con le sentenze n. 12328 del 23.3.2007, Fiorillo; n. 20426 del 24.5.2007, Casciano; n. 35796 del 28.9.2007, Franchellucci).

  1. Accanto a tale indirizzo le SS.UU. D.S. del 2008 davano atto dell’esistenza di un diverso (e minoritario) orientamento, che riteneva, al contrario, che la c.d. “coltivazione domestica” non integrasse gli estremi della fattispecie tipica della “coltivazione” oggetto di incriminazione nell’ambito del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, ma costituisse species del più ampio genus (di chiusura) della “detenzione”, di cui al comma 1 del successivo art. 75, risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all’esclusivo uso personale, e ciò anche alla luce del regime normativo introdotto dalla L. n. 49 del 2006.

Le SS.UU. ricordavano che la prima affermazione di principio in tal senso si rinveniva in sez. 6^, n. 6347 del 30.5.1994, n. 6347, Polisena, secondo la quale “una volta abrogato il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti, ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte caratterizzate dal medesimo fine e quindi di interpretare l’art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un’interpretazione estensiva dell’espressione “comunque detiene” di cui al testo del primo comma dell’art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta” (principio affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana).

Nel medesimo senso si era posta sez. 6^, n. 3353 del 13.9.1994, Gabriele, caratterizzata inoltre dal tentativo di precisare la nozione normativa di “coltivazione”.

Tale decisione aveva ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica, osservando che l’ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc), quali si evincono del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 27 e 28. Così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga, qualunque sia il fine cui essa è rivolta, si ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dall’art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l’illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all’uso personale.

  1. Le SS.UU 28605 /2008, cui si rimanda per l’ampia ed articolata disamina, davano poi conto della successiva giurisprudenza contrastante sul punto sino a che non si era giunti alla pronuncia di sez. 4^ n. 1138 del 4^.12.1993, Gagliardi e n. 913 del 5.5.1995, Paoli, che ritennero di non adeguarsi all’interpretazione adeguatrice che si andava facendo avanti, argomentando essenzialmente sulla natura di reato di pericolo della “coltivazione” e sulla non assimilabilità della coltivazione stessa alla “detenzione”, così contrastando le aperture che avevano invece caratterizzato la giurisprudenza di merito.

Venne dunque riproposta la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 75, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, sollevata in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost., e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995, alla luce dell’interpretazione restrittiva fornita da questa Corte di legittimità, ne dichiarò l’infondatezza.

La Consulta ritenne la questione non fondata, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparità di trattamento in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa di “coltivazione”, prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, con alcuna di quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis ed argomentò, in particolare, che “la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorchè valutata sempre in termini di illiceità, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contingente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell’assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Per altro verso la scelta della non criminalizzazione del consumo in sè (che rappresenta una nota costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigore) implica necessariamente anche, in qualche misura, la non rilevanza penale di comportamenti immediatamente precedenti, essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione. La linea di confine di queste condotte che, per il fatto di approssimarsi all’area di non illiceità penale (quella del con-sumo)f si giovano dì riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata prima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall’uso personale; ma si tratta pur sempre di una sorta di cintura protettiva del nucleo centrale (id est il consumo) per evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti, che il legislatore ha ritenuto da ultimo di contrastare appunto con la comminatoria di sanzioni solo amministrative per le condotte ritenute più immediatamente antecedenti, possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. La coltivazione invece è esterna a quest’area contigua al consumo e ciò già di per sè rende ragione sufficiente di una disciplina differenziata. Nè va taciuto che la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni qui comparate. Infatti nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicchè anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perchè ? come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione ? l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili”.

La sentenza n. 360 del 1995 della Corte Costituzionale evidenziò altresì che la persistente illiceità penale della coltivazione, anche qualora univocamente destinata all’uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, resisteva anche alla verifica condotta (ex artt. 25 e 27 Cost.) alla stregua del principio di offensività, rilevando che “la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che, come già rilevato, l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perchè non è irragionevole la valutazione prognostica sottesa alla astratta fattispecie criminosa di attentato al bene giuridico protetto. E come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991; ma cfr. anche sentenza n. 62 del 1986) non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; nè nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso, prospettato dal giudice rimettente, della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un’unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991 già citate)”.

  1. Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di “coltivazione” anche in relazione alla coltivazione domestica di un’unica pianta, la Corte Costituzionale precisò, dunque, che “costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario, la identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide anch’essa sulla linea di coniine del penalmente illecito”.

Alle valutazioni svolte nella sentenza n. 360 del 1995 si sono poi riportate le successive decisioni in tema (ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996), in difetto di argomenti nuovi o di nuovi profili di censura.

Con la sentenza n. 296 del 1996, la Corte Costituzionale ha avuto poi ancora modo di evidenziare che dal novero delle condotte contemplate dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, il successivo art. 75 ne estrapola tre (l’importazione, l’acquisto e la detenzione) per riferirle ad una finalità specifica dell’agente, che è quella di farne uso personale. Per effetto dell’esito referendario “le tre condotte contemplate dall’art. 75, ove finalizzate all’uso persona/e, sono state interamente attratte nell’area dell’illecito amministrativo, divenendo estranee all’area del penalmente rilevante;

in tal modo è risultata anche in parte modificata la stessa strategia di (confermato) contrasto della diffusione della droga nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente (e anche del tossicofilo) rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative, significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti, ma non anche di sanzione penale. Ciò però non sulla base soggettiva dell’autore della condotta, quasi si trattasse di una immunità personale, bensì sulla base oggettiva della condotta stessa (quale specificata nell’art. 75 nelle tre ipotesi suddette) e dell’elemento teleologico (della destinazione della droga ad uso personale). In tal modo, come questa Corte ha già pun-tualizzato (sentenza n. 360 del 1995), ne risulta tracciata una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. In quest’area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione; ed è l’elemento teleologico della destinazione della droga all’uso personale ad assicurare (secondo l’id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza. Ove invece non ricorra l’elemento oggettivo (di una delle tre condotte tipizzate nell’art. 75 cit.) o quello teleologico (appena ricordato) si ricade nell’area dell’illecito penale. Ciò anche nell’ipotesi di una condotta, quale quella della coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi di sostanze stupefacenti al fine di fare uso personale delle stesse, che si approssima notevolmente a tale cintura protettiva, ma ne rimane pur sempre all’esterno, mancando la puntuale e rigorosa identificazione di uno dei due requisiti prescritti: condotta questa la cui perdurante rilevanza penale è stata ritenuta proprio per tale ragione non illegittima da questa Corte nella citata sentenza n. 360 del 1995″.

  1. Le Sezioni Unite ricordarono nel 2008 che l’orientamento minoritario di cui si è detto, dopo l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995, fu abbandonato per oltre un decennio, per essere poi riproposto, successivamente all’entrata in vigore della legge n. 49 del 2006, da sez. 6^, n. 17983 del 10.5.2007, Notaro, le cui argomentazioni furono richiamate da quattro successive decisioni conformi della stessa Sezione (n. 31968 del 3.8.2007, Satta; n. 40362 del 31.10.2007, Mantovani; n. 40172 del 6.11.2007, Nicolotti ed altro; n. 42650 del 19.11.2007, Piersanti) sul cui decisum si soffermano ampiamente in motivazione.

Le SS.UU 28605/2008 pervennero, tuttavia, alla seguente conclusione che il Collegio ritiene essere tuttora assolutamente calzante anche all’ulteriore reato commesso dal D.S. sette anni dopo: “Tenuto conto delle argomentazioni del Giudice delle leggi dianzi compendiate ed a fronte dei due orientamenti della giurisprudenza di legittimità dianzi illustrati, ritengono queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.

Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni:

  1. a) Devono ribadirsi anzitutto gli argomenti svolti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 360 del 1995, con riferimento alla mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale ed alla impossibilità di determinare “ex ante” la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione.

Non appaiono condivisibili, in proposito, le riflessioni della sentenza Notaro (n. 17983/07), che considerano “improprie” le argomentazioni anzidette, perchè perverrebbero “ad una scelta ermeneutica” sulla base di un assetto interpretativo non proprio corrispondente agli effettivi risultati cui era giunta la giurisprudenza ordinaria”, per di più in contrasto con le conclusioni della stessa giurisprudenza costituzionale “in tema di differenza tra reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto”. La Corte Costituzionale, infatti, (…) tenne ben presente, al momento della decisione, sia la esistenza di un orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere la coltivazione per uso personale depenalizzata all’esito del referendum del 1993 ed assoggettabile pertanto alle sole sanzioni amministrative, sia la diversa interpretazione restrittiva privilegiata da questa Corte di Cassazione.

Quanto poi alla valutazione della esposizione a pericolo degli interessi oggetto di tutela, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i reati di pericolo presunto non sono astrattamente incompatibili con il principio di offensività. La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti. In tale prospettiva, anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della “salute individuale” costituisca, all’esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte Costituzionale, alle esigenze di tutela della “salute collettiva” connesse alla valorizzazione del “pericolo di spaccio” derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell’autorità.

La “salute collettiva” è bene giuridico primario che, anche secondo l’elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto.

Questa Corte Suprema, inoltre, a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 21.9.1998, Kremi), ha rilevato che i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dal T.U. n. 309 del 1990, art. 73, sono individuabili, oltre che nella salute pubblica, anche nella sicurezza e nell’ordine pubblico (in tal senso si è pure espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 333/1991), nonchè nella salvaguardia delle giovani generazioni, e può sicuramente affermarsi che l’implemento del mercato degli stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l’ordine pubblico e di allarme sociale.

  1. b) Va evidenziato poi che la condotta di “coltivazione”, anche dopo l’intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nell’art. 73, comma 1 bis, nè nell’art. 75, comma 1, ma solo del novellato P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.

Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti.

Imprescindibile è, al riguardo, il rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, tenuto conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro riduttivi. Deve essere pertanto circoscritta al legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare.

  1. c) E’ agevole ricavare dal P.R. n. 309 del 1990, art. 75 (ed in claris non fit interpretatio) l’esclusione dal regime dell’uso personale di tutte le altre condotte previste dall’art. 73, ad eccezione dell’importazione, acquisto o comunque della detenzione;

vale a dire le condotte di chiunque “coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo”. Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l’assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, “coltiva le piante indicate nell’art. 36”.

  1. d) Arbitraria deve ritenersi la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero “imprenditoriale” e “coltivazione domestica” ed essa non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale. Il P.R. n. 309 del 1990, art. 26, (sotto il capo “Della coltivazione e produzioni vietate”) pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella 1^ di cui all’art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannabis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante, per scopi scientifici, sperimentali e didattici”. Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella I, non necessariamente connotata (poichè la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione “tecnico-agraria”, fatta eccezione soltanto per quella “per scopi scientifici, sperimentali e didattici” assentibile con autorizzazione in favore di “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca”.

Il fatto che nei successivi D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 27-29 e 30, siano previste norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l’autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicchè mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale.

  1. e) Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.

La coltivazione, inoltre, presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali.

Con tali affermazioni non si opera “una confusione del fine nella struttura del precetto penale” nè si accentra l’esame sul profilo teleologico, per poi pervenire, proprio attraverso di esso, alla ricostruzione strutturale della coltivazione (come viene contestato nella sentenza Notaro), ma si da esclusivamente conto della ratio del diverso trattamento sanzionatorio, in un contesto normativo nel quale neppure appaiono condivisibili le considerazioni svolte nella sentenza medesima circa la “indeterminatezza della natura dell’offesa”.

Nel caso, poi, in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile “assorbimento” nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale”.

  1. Residua un’ultima notazione – si legge ancora nella sentenza delle SSUU 28605/2008 “…circa la necessità, in ogni caso, della verifica, demandata al giudice del merito, dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata.

Il principio di offensività, in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (“nullum crimen sine iniuria”), secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, “rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio inter-pretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato” (così testualmente Corte Cost n. 265/05 e, in senso conforme, vedi pure le decisioni nn. 360/95, 263/00, 519/00, 354/02).

Nella specie la Corte Costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta.

In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva.

La condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicchè, con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. ” 13. Così, dunque, il condivisibile dictum delle SS.UU. del 2008, cui ha fatto seguito una giurisprudenza di questa Corte assolutamente conforme (cfr, ex plurimis, sez. 6^, n. 49528 del 13.10.2009, Lanzo, rv. 245648).

Costante, in particolare, è stata l’affermazione secondo cui la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 26 e 28 a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria o domestica, posto che l’attività in sè, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga (così sez. 6^, n. 49523 del 9.12.2009, Cammarota, rv.

245661, fattispecie relativa alla coltivazione di quindici piante di marijuana).

E, ancora recentemente, è stato affermato che la coltivazione di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti è penalmente rilevante a norma del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 26 e 28 a prescindere dalla distinzione tra coltivazione tecnico-agraria e coltivazione domestica, posto che l’attività in sè, in difetto delle prescritte autorizzazioni, è da ritenere potenzialmente diffusiva della droga (sez. 6^, n. 33385 dell’8.4.2014; Piredda, rv.

260170, fattispecie relativa alla coltivazione di una pluralità di piantine di cannabis indica all’interno di una serra rudimentale;

conf. sez. 6^, n. 51497 del 4.12.2013, Zilli, rv. 258503).

Si è detto, in precedenza, che il Collegio non condivide, in particolare, il dictum di cui alle sentenze:

– sez. 4^, n. 25674 del 17.2.2011; Marino, rv. 250721 secondo cui la coltivazione domestica di una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, costituisce condotta inoffensiva “ex” art. 49 c.p., che non integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73;

– sez. 6^, n. 33385 dell’8.4.2014, Piredda, rv. 260170 secondo cui la punibilità per la coltivazione non autorizzata di piante da cui sono estraibili sostanze stupefacenti va esclusa allorchè il giudice ne accerti l’inoffensività “in concreto”, nel senso che la condotta deve essere così trascurabile da rendere sostanzialmente irrilevante l’aumento di disponibilità della droga e non prospettabile alcun pericolo di ulteriore diffusione di essa, (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto penalmente irrilevante la coltivazione di due piantine di marijuana contenenti un principio attivo inferiore al quantitativo massimo detenibile);

– sez. 6^, n. 22110 del 2.5.2013, Capuano, rv. 255733 che parla di “idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile” (e in applicazione di tale principio ha escluso l’idoneità offensiva della condotta di coltivazione domestica di tre piantine di marijuana poste in distinti vasetti e dotate di potere drogante).

Il giudice dovrà, infatti, in concreto, valutare se nel caso concreto la condotta è inoffensiva. E questo, invero, lo sottolineano anche le pronunce appena citate.

Tuttavia come hanno ben spiegato le SSUU 28605/2008 la condotta è “inoffensiva” “soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicchè, con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”.

Nello stesso senso, condivisibilmente, è stato affermato che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, attese la formulazione delle norme e la “ra-tio” della disciplina, anche comunitaria, in materia, sicchè non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente (sez. 6^, n. 22459 del 15.3.2013, Cangemi, rv. 255732).

E, ancora, in altra pronuncia, si è condivisibilmente affermato che in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, non essendo requisito necessario la destinazione della sostanza alla cessione verso terzi, il dato ponderale può assumere rilevanza al fine di fornire indicazioni sull’offensività della condotta, la quale però non può essere esclusa ogniqualvolta i quantitativi prodotti risultino inferiori alla “dose media singola”, determinata dalle tabelle ministeriali, ma soltanto quando risultino privi della concreta attitudine ad esercitare, anche in misura minima, gli effetti psicotropi evocati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (sez. 4^, n. 43184 del 20.9.2013, Carioti ed altro, rv. 258095).

E’ stato anche precisato, di recente, che ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l’offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l’assenza di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all’esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il “coltivare” è attività che si riferisce all’intero ciclo evolutivo dell’organismo biologico (sez. 6^, n. 6753 del 9.1.2014, M., rv.

258998).

Dunque, per essere ancora più chiari, a fronte di un reato inequivocabilmente congegnato come reato di pericolo presunto, in cui una valutazione di offensività in astratto è stata già operata dal legislatore che ha ritenuto che la coltivazione di stupefacenti esprima in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse ritenuto meritevole di tutela penale, e di rango costituzionale, qual è la salute pubblica, lo spazio che residua in concreto per il giudice del merito è esclusivamente quello di verificare se dalle piante coltivate possa essere ricavato o meno un prodotto che abbia capacità stupefacente.

Tale valutazione si palesava evidentemente superflua nel caso che ci occupa, non necessitando che il giudice del merito argomentasse in maniera approfondita sul punto, laddove tutti i testi a discarico hanno dichiarato che il D.S. faceva uso, a loro dire a fini terapeutici, della marijuana che ricavava da quelle piante.

Marijuana, quindi, che evidentemente aveva un effetto drogante, atto a lenirgli il dolore della lombosciatalgia.

Peraltro, va ribadito che non è mai individuabile un nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale, ed è conseguentemente impossibile determinare ex ante le quantità e le potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione.

La distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” e “coltivazione domestica” è, infatti, arbitraria, e comunque superata dal rilievo che qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato distintivo rispetto alla fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere la quantità di sostanza stupefacente esistente sul mercato, si da meritare un trattamento sanzionatorio più grave.

  1. Va sottolineato, infine, che l’articolata pronuncia di cui a sez. 4^ n. 25674 del 17.2.2011, di cui pure si è detto il Collegio non condivide le conclusioni, offre degli interessanti spunti alla luce del recente D.Lgs 16 marzo 2015, n 28 con cui è stato introdotta con il nuovo art. 131 bis c.p., la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

Si legge, infatti, nella sentenza 25674/2014, con cui si è ritenuto che la coltivazione domestica di una piantina di canapa indiana contenente principio attivo pari a mg. 16, posta in un piccolo vaso sul terrazzo di casa, costituisse condotta inoffensiva “ex” art. 49 c.p., tale da non integrare il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73: “Con altra pronuncia, la Corte Costituzionale ha precisato che diversa dal principio della offensività, come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore penale ordinario, è la offensività specifica della singola condotta in concreto accertata. Ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 c.p.).

La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (Corte Cost. 360 del 14/5/1995).

La giurisprudenza di merito e di legittimità, sebbene timidamente, hanno fatto appello al difetto di offensività per ritenere non punibile, a titolo esemplificativo, il tentato omicidio attraverso colpi sparati alla vittima protetta da un vetro antiproiettile (Cass. 1^, 8527/1989, rv. 181564); la cessione di stupefacente con un principio attivo di scarsa capacità drogante (Cass. 4^, 601/1997, rv. 208011; Cass. 4^, 1222/2008, Rv. 242371); l’abuso d’ufficio, nel caso in cui esso incideva su un rapporto di lavoro oramai estinto (Cass, 6A, 8406/1997, rv. 208852); la violazione di norme tributarie determinata da irregolarità del tutto sporadica e casuale (Cass. 3^, 845U999, rv. 212305); il falso innocuo (Cass. 5^, 7875/1987, rv.

176302); il furto di mercè di modesto valore (Trib. di Roma 2/5/2000). Peraltro, con molta cautela, il principio di offensività si va facendo strada anche nel diritto positivo: l’art. 27 del processo penale minorile, stabilisce che “Durante le indagini preliminari, se risulta la tenuità del fatto e la occasionante del comportamento, il pubblico ministero chiede al giudice sentenza di non luogo procedere per irrilevanza del fatto quando l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenza educative del minorenne”.

Ancora, il D.Lgs. n. 274 del 2000, art. 34 (Giudice dì pace), prevede la possibilità dell’archiviazione del procedimento nei casi di particolare tenuità. Secondo la disposizione il fatto è di particolare tenuità quando, rispetto all’interesse tutelato, l’esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonchè la sua occasionala e il grado della colpevolezza non giustificano l’esercizio dell’azione penale, tenuto conto altresì del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato.

L’apertura mostrata dal legislatore verso la problematica dell’offensività appare destinata in futuro ad innovare tutto il sistema penale”.

Ebbene, tali argomentazioni, evidentemente, precorrevano quanto poi sarebbe accaduto, con la differenza che oggi quelle affermazioni possono essere condivise, ma nel solco dell’avvenuta affermazione della sussistenza di un reato, fatta salva l’eventuale applicabilità di quella particolare causa di non punibilità oggi prevista dall’art. 131 bis c.p..

In altri termini, a fronte di un giudice di merito che, di fronte alla coltivazione di piantine atte a produrre stupefacente avente anche un minimo effetto drogante non pare avere altra strada che quella dell’affermare la sussistenza del reato, potrebbe non essere irrogata la sanzione penale se lo stesso:

  1. a) a fronte di fatti di minore gravità ritenerli sussumibili, come accaduto nel caso che ci occupa, nell’ipotesi di reato autonomo di cui al P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5;
  2. b) ulteriormente, in presenza delle condizioni di legge, ritenga il fatto di particolare tenuità ai sensi dell’art. 131 bis c.p..

Naturalmente, però, anche tale ultima valutazione andrà correlata alla particolare offensività in astratto che, come si è visto in precedenza, il legislatore ha ritenuto di attribuire alla coltivazione di stupefacenti. E il giudice dovrà tenere conto in particolar modo dell’elemento ostativo di cui all’art. 131 bis c.p., costituito dall’avere l’imputato commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, ovvero reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Il che, evidentemente, rende l’art. 131 bis c.p., inapplicabile al D.S., già condannato per fatti analoghi con la sentenza della Corte d’Appello di Milano divenuta definitiva all’esito della pronuncia delle SSUU 28605/2008.

Anche l’ennesima vicenda processuale che riguarda D.S. V. e la coltivazione di marijuana in (OMISSIS), pertanto, non può che concludersi con il rigetto del ricorso, cui consegue, ex lege, la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2015