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Morte come conseguenza del lancio di un gavettone

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Morte come conseguenza del lancio di un gavettone

Con la sentenza in esame la Suprema Corte ha inquadrato come morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (ex art. 586 c.p.) la condotta di un soggetto che ha lanciato un gavettone verso la persona di un anziano affetto da cardiovasculopatia sclerotica che, per lo spavento, è deceduto.

Prima di esaminare in punto di diritto la sentenza in epigrafe, occorre tratteggiare brevemente il fatto storico, fondamentale ai fini della corretta qualificazione giuridica della condotta dell’agente.

Tizio, infastidito dai rumori provenienti dall’abitazione dell’ultraottantenne Caio, al fine di mettere fine al frastuono decide di lanciare una busta colma d’acqua in direzione della finestra dell’abitazione di Caio. Quest’ultimo, affetto da una patologia cardiovascolare, muore a seguito dello spavento cagionato dall’impatto.

Questi i fatti che hanno portato i giudici di merito ad affermare la penale responsabilità di Tizio, seppur sotto diversi profili.

In primo grado, era stata affermata la penale responsabilità di Tizio per omicidio colposo in virtù del suo comportamento negligente o imprudente (consistente nel lancio di un gavettone in direzione dell’abitazione di Caio) da cui è derivata la morte di un uomo.

In secondo grado la corte d’appello ha configurato i fatti suddetti nel reato ex art. 586 c.p. (morte o lesioni come conseguenza di altro delitto), considerando come delitto base quello di minaccia qualificazione poi confermata in Cassazione con la sentenza in epigrafe.

Va segnalato che il Procuratore generale presso la corte d’appello, nel proporre ricorso per Cassazione aveva ritenuto più opportuno qualificare il reato base come percosse, in luogo della minaccia.

Invero proprio questo aspetto sembra essere il punctum dolens della sentenza in commento.

La condotta di Tizio – che lancia un gavettone in direzione di una abitazione al fine di porre fine alle discussioni che in essa avevano luogo – sembra difficilmente integrare il delitto di minaccia ex art. 612 c.p. poiché, come più volte chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, per minaccia si deve intendere ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno e consistente in una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto (id est “contra ius”) che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato dal colpevole o da altri per lui nella persona o nel patrimonio.

Quanto detto sembra difficilmente compatibile con l’inquadramento sistematico della condotta di Tizio nella fattispecie ex art. 612 c.p. poiché la condotta intimidatoria rivolta al futuro è pressoché assente. Non vi è un male prospettato o minacciato, in quanto la condotta antigiuridica è proprio quella posta in essere dal soggetto agente e quindi il lancio del gavettone.

Pertanto dal punto di vista del reato base cui ricollegare quello ex art. 586 c.p., sembra condivisibile la ricostruzione effettuata dal Procuratore Generale.

Per quanto concerne il nesso di causalità intercorrente tra la condotta e l’evento morte, la Corte di Cassazione ha fatto applicazione del criterio delineato nella sentenza Franzese (SS.UU. 30328/2002) in cui aveva chiarito che il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Circa l’imputazione della conseguenza ulteriore non voluta, derivante dalla commissione di un reato-base doloso, la Suprema Corte sembra aver parzialmente applicato e seguito il percorso interpretativo segnato con la sentenza Ronci (SS.UU. 22676/2009) avente ad oggetto una fattispecie concreta diversa ma assimilabile a quella riguardante la sentenza in commento.

In particolare la suprema corte aveva chiarito che “nell’ipotesi di morte verificatasi in conseguenza dell’assunzione di sostanza stupefacente, la responsabilità penale dello spacciatore ai sensi dell’art. 586 cod. pen. per l’evento morte non voluto richiede che sia accertato non solo il nesso di causalità tra cessione e morte, non interrotto da cause eccezionali sopravvenute, ma anche che la morte sia in concreto rimproverabile allo spacciatore e che quindi sia accertata in capo allo stesso la presenza dell’elemento soggettivo della colpa in concreto, ancorata alla violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma penale che incrimina il reato base) e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità in concreto del rischio per il bene della vita del soggetto che assume la sostanza, valutate dal punto di vista di un razionale agente modello che si trovi nella concreta situazione dell’agente reale ed alla stregua di tutte le circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale”.

La ricostruzione interpretativa seguita nella pronuncia sora citata, è stata perfettamente ripercorsa nel caso in esame ma con una peculiarità non indifferente poiché il giudizio di prevedibilità ed evitabilità in concreto che avrebbe dovuto fare il soggetto agente non sarebbe dovuto essere limitato al generico pregiudizio per la salute della vittima (come si legge dalla sentenza in commento), ma specificamente all’evento morte che si è poi verificato.

Alla luce di quanto detto, la sentenza 47979/2016 torna sulla questione dell’attribuibilità al soggetto agente delle conseguenze ulteriori della propria condotta, e quindi sulla divergenza tra voluto e realizzato, richiamando per certi aspetti l’antico brocardo “versanti in re illicita, imputantur omnia quae sequuntur ex delicto”.

 

 

TESTO DELLA SENTENZA

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE , SENTENZA 14 novembre 2016, n.47979 – Pres. Fiale – est. Aceto

Ritenuto in fatto

 

  1. Il sig. U.L. ricorre per l’annullamento della sentenza del 05/02/2014 della Corte di appello di Roma che, decidendo in sede rescissoria ed in riforma della sentenza del 06/03/2003 del Tribunale di Latina, ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per il reato di cui all’art. 586, cod. pen. (così riqualificato quello di cui all’art. 589, cod. pen., originariamente contestato), commesso in (omissis) , perché estinto per prescrizione, ed ha confermato la condanna al risarcimento del danno in favore delle parti civili.

 

1.1.Con unico motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l’erronea applicazione degli artt. 623 e 634, cod. proc. pen., 40 e 586, cod. pen., e vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria con riferimento alla deposizione resa dal consulente tecnico del PM all’udienza del 06/02/2003.

 

Deduce, a tal fine, che la sentenza impugnata ha sostanzialmente eluso i temi posti in sede rescindente circa: a) la causa del decesso di D.L.G. ; b) la concreta prevedibilità dell’evento.

 

Quanto al primo profilo, il rapporto di causalità materiale tra l’evento letale e la condotta (il lancio di una busta di plastica piena d’acqua contro la vittima), lamenta la mancata piena applicazione dei criteri di accertamento giudiziale stabiliti dalla nota sentenza Franzese. La Corte di appello, afferma, ha sostanzialmente attinto a piene mani alla sentenza di primo grado effettuando un vero e proprio salto logico rispetto alle conclusioni rassegnate al riguardo dal CT del PM che si era espresso in termini sostanzialmente dubitativi circa il grado di probabilità con il quale poter ricondurre l’evento alla condotta che l’aveva cronologicamente preceduta, convenendo con la difesa che se ne fosse stato all’oscuro avrebbe attribuito la morte a cause naturali. Sicché, conclude sul punto, la Corte di appello ha coperto il “gap” informativo ricorrendo al dato della contiguità temporale, definito come “suggestivo” dallo stesso medico legale.

 

Quanto al secondo profilo (la prevedibilità dell’evento) lamenta che le conclusioni della Corte di appello si fondano da un lato su presupposti fattuali non solo mai processualmente verificati (quali l’altezza della finestra dalla quale è stato effettuato il lancio, il peso della busta, la posizione della vittima, il suo effettivo attingimento), ma in contrasto con la rilevata assenza di segni sul corpo del D.L. , dall’altro su considerazioni puramente congetturali, non potendosi logicamente far derivare dal rapporto di conoscenza con l’anziana vittima, la conoscenza delle patologie cardiache di cui si assume che soffrisse, congetture superate dal richiamo a massime di esperienza che rischiano di attrarre nella sfera della colpevolezza ogni comportamento che possa ingenerare stress emozionali (come, per assurdo, anche il suono di un clacson).

 

Considerato in diritto

 

  1. Il ricorso è infondato.

 

3.Per motivi di ordine logico è necessario esaminare le questioni relative al nesso di causalità tra la condotta (il lancio della busta piena d’acqua) e la morte del D.L. (persona di 86 anni affetta da pregressa cardiovascolopatia sclerotica) occorsa due ore più tardi per insufficienza acuta cardio-respiratoria.

 

3.1.Non v’è dubbio che l’imputato ha volontariamente lanciato la busta dalla finestra della propria abitazione, posta al secondo piano del palazzo in cui abitava, al fine di intimorire la vittima che si trovava in quel momento seduta davanti al portone di casa propria e che fu anche colpita. La chiara presa di posizione sul punto della Corte di appello, suffragata dal richiamo testuale a fonti di prova testimoniale di cui trascrive anche i passaggi significativi, non sono oggetto di contestazione.

 

2.4.Non v’è nemmeno contestazione sul fatto che la vittima soffrisse di cardiovascolopatia sclerotica né sulla causa immediata del decesso: l’insufficienza acuta cardio-respiratoria.

 

2.5.Quanto alla riconducibilità dell’evento alla condotta, la Corte di appello, da un lato, fa proprie le considerazioni del Tribunale che, utilizzando massime di esperienza, aveva affermato “che l’essere attinti improvvisamente da un involucro contenente dell’acqua che si rompa al contatto con il corpo del destinatario determina conseguenze di aritmia, è fenomeno naturale che ciascuno può sperimentare su di sé”, dall’altro, però, richiama (e trascrive) la relazione del CT del PM che aveva spiegato in termini scientifici il meccanismo provocato da uno stimolo emozionale intenso sul sistema endocrino “che, a livello della ghiandola surrenalica aumenta la produzione di adrenalina e noradrenalina. Detto ormoni, immessi in circolo, aumentano il consumo di ossigeno del cuore e la frequenza del battito cardiaco: a tale situazione di stress dovrebbe corrispondere un aumento della conduzione elettrica del cuore ed un miocardio alterato dalla fibrosclerosi, e quindi con un diminuito e meno efficiente patrimonio di miocellule, aumenta oltremodo la possibilità che uno stimolo elettrico possa innescare un evento aritmico ridondante; quest’ultimo può esitare in un arresto improvviso del battito per la contemporanea refrattarietà delle miocellule ancora efficienti: tutto ciò è probabile che si sia realizzato nel caso in discussione nel quale si riscontrano tutti gli elementi: stress emozionale, miocardiopatia sclerotica marcata e sopratutto stretta connessione temporale tra il fatto traumatico e la morte del soggetto”. L’elemento cronologico – spiega la Corte di appello, citando ancora una volta il CT del PM – ha, secondo la letteratura scientifica, anche in ambito statistico, dignità causale a pieno titolo concorrente nella produzione letale dell’evento. Non rileva, ed è fuorviante, precisano i Giudici distrettuali, la affermazione resa dal CT in sede dibattimentale allorquando è parso attribuire alla connessione cronologica valenza causale esclusiva e suggestiva. In realtà, affermano, quel che conta è che la condotta dell’agente, date le circostanze di tempo e di luogo, ha effettivamente scatenato la reazione causale che ha portato alla morte in arco di tempo ritenuto compatibile anche dalla difesa, in assenza dell’attribuzione dell’evento ad altre cause concorrenti.

 

2.6.Le censure del ricorrente (che in parte attingono inammissibilmente al materiale probatorio) sono perciò infondate.

 

2.7.Anche se è vero che il giudizio controfattuale governa sempre l’accertamento di sussistenza del rapporto di causalità, è altrettanto vero che tale giudizio si atteggia diversamente a seconda che l’evento sia imputabile a condotta omissiva ovvero commissiva dell’imputato.

 

2.8.Nel primo caso (causalità per omissione) l’agente può solo intervenire sul processo causale, impedendolo sul nascere, ovvero interrompendolo o deviandolo, con l’azione doverosa, verso il risultato atteso. Per utilizzare una metafora che renda più efficace il concetto, egli può solo cambiare la storia del fatto evitando che si avveri ovvero piegando il corso degli eventi verso un approdo che preservi il bene tutelato dalla lesione cui andrebbe altrimenti incontro. Egli è in ogni caso “estraneo” al rapporto causale nel quale si potrebbe solo inserire per esercitare il suo dominio. Ma se non lo fa, la condotta omessa non appartiene all’esperienza sensibile perché semplicemente non esiste “in rerum natura”. Sicché in questo caso, per poter attribuire l’evento all’agente è necessario che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, si possa affermare con elevato grado di credibilità razionale che l’evento non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (così Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138). In questi casi, nel giudizio controfattuale l’azione, che non appartiene al mondo sensibile, può essere solo immaginata, ipotizzata, così come può esserlo l’evento non verificatosi. Di qui la necessità di un criterio rigoroso e non meramente statistico (l’elevato grado di credibilità razionale) che guidi il giudice nella ricostruzione di un fatto mai esistito, di una realtà alternativa e parallela, oltre ogni ragionevole dubbio, a quella reale.

 

2.9.Nel secondo caso (rapporto di causalità commissiva) l’agente è parte attiva del rapporto causale che innesca lui stesso o nel quale si inserisce indirizzandolo positivamente verso l’evento. In questo caso egli è nella storia del fatto, la sua azione è parte dell’esperienza sensibile realmente percepita come tale dai protagonisti del fatto e da chi è chiamato a ricostruirlo. Il giudice, in questo caso, non deve impegnarsi nella ricostruzione di un fatto immaginario perché mai esistito, ma deve addentrarsi nel fatto stesso, ripercorrendone ogni singolo passaggio; egli è lo storico del fatto. In questo caso, diversamente dal primo, il cd. giudizio “controfattuale” non si deve basare su criteri probabilistico/statistici perché qui non si ipotizza un evento solo immaginabile, diverso da quello storicamente verificatosi; qui l’evento è solo quello realmente accaduto, sicché ogni elemento che scientificamente può spiegarlo è una sua potenziale causa, sia essa preesistente, concomitante o successiva all’azione dell’autore. Per cui, una volta acclarata l’attitudine dell’azione posta in essere dall’imputato a innescare un meccanismo lesivo dell’incolumità fisica è sufficiente astrarre tale azione dal contesto in cui è stata posta in essere per poter affermare che senza di esso tale meccanismo non si sarebbe attivato.

 

2.10.Non v’è dubbio, pertanto, che l’azione dell’imputato ha innescato un meccanismo potenzialmente idoneo a provocare, alla luce delle concause preesistenti (la patologia cardiologica) e dell’età della vittima, il decesso di quest’ultima. Quel che va ulteriormente verificato è se sul decorso causale che ha condotto all’evento hanno interferito fattori ulteriori e diversi che, ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. pen., possano aver determinato in modo autonomo l’evento spezzando il rapporto di causalità con l’azione del colpevole.

 

2.11.È in questo contesto che si inserisce la questione del periodo di tempo intercorso prima della morte del D.L. .

 

2.12.Sennonchè non risulta nemmeno dalle allegazioni difensive che in tale arco di tempo si siano inseriti meccanismi autonomi di sovrapposizione al decorso causale, che anzi, come si legge nella sentenza, tale spazio temporale è del tutto fisiologico al suo completamento con conseguente insostenibilità anche astratta di una possibile spiegazione alternativa della morte del D.L. .

 

2.13.L’esclusione della interferenza di decorsi causali alternativi, tra l’altro, deve essere frutto di una valutazione che tenga conto del criterio di giudizio fornito dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., che impone di pronunciare condanna a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili “in rerum natura” ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, Segura, Rv. 262280; Sez. 1, n. 17921 del 03/03/2010, Giampà, Rv. 247449; Sez. 1, n. 31546 del 21/05/2008, Franzoni, Rv. 240763; Sez. 1, n. 23813 del 08/05/2009, Manickam, Rv. 243801). Criterio la cui validità trova ulteriore fondamento sulla circostanza che, come già detto, nel caso di causalità commissiva un’ipotesi astratta e non verificabile non può espungere dal fatto un dato concreto e realmente verificatosi. La ragionevolezza del dubbio è un predicato che esclude dall’ambito delle regole di giudizio l’attitudine dell’ipotesi astratta a porsi come strumento di ricostruzione alternativa del fatto.

 

2.14.Quanto alla concreta prevedibilità dell’evento, soccorre il principio di diritto (ricordato anche dalla Corte di appello), autorevolmente ribadito anche in caso di morte quale conseguenza di cessione di sostanze stupefacenti, secondo cui in tema di morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, la morte è imputabile alla responsabilità dell’autore della condotta sempre che, oltre al nesso di causalità materiale, sussista la colpa in concreto per violazione di una regola precauzionale (diversa dalla norma che incrimina la condotta delittuosa del reato-base) e con prevedibilità ed evitabilità dell’evento, da valutarsi alla stregua dell’agente modello razionale, tenuto conto delle circostanze del caso concreto conosciute o conoscibili dall’agente reale (Sez. U, n. 22676 del 22/01/2009, Ronci, Rv. 243381). Come affermato da questa Corte, la responsabilità dell’autore del reato-base deve essere esclusa quando la morte risulti in concreto imprevedibile perché intervenuta per effetto di fattori non noti o non rappresentabili dall’agente.

 

2.15.La Corte di appello ritiene la prevedibilità in concreto della condotta avuto riguardo alla sua portata lesiva e allo spavento che ne sarebbe derivato (il lancio dal secondo piano di una busta piena d’acqua che ha persino colpito la vittima), all’età avanzata di quest’ultima (più che ottuagenaria), al rapporto di conoscenza pluriennale con l’imputato che era in grado di apprezzare lo stato di declino fisico.

 

2.16.Le censure del ricorrente si appuntano decisamente sui presupposti fattuali di tale conclusione (la cui sussistenza contesta) piuttosto che sulla tenuta logica e correttezza giuridica del ragionamento sui cui si fonda. Premesso che è estranea alla regiudicanda ogni possibile diversa ricostruzione del fatto, così facendo lo stesso ricorrente indirettamente “valida” il giudizio della Corte di appello che passa indenne al vaglio di questa Suprema Corte.

 

2.17.Non è manifestamente illogico trarre dalla dinamica del fatto, dal contesto in cui si è verificato, dall’età della vittima e dai rapporti personali con l’imputato, la conclusione della prevedibilità in concreto dell’evento, che cioè il lancio improvviso e violento di una busta piena d’acqua, posto in essere a fini intimidatori, potesse cagionare reazioni fisiche prevedibilmente pregiudizievoli per la salute di una persona anziana.

 

2.18.Ne consegue che il ricorso deve essere respinto.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Francesco Tortora
Classe 1991, laureato cum laude in giurisprudenza all'università Federico II di Napoli, specializzato in professioni legali presso l'università G.Marconi di Roma, perfezionato in diritto amministrativo e finanza degli enti locali presso l'università Federico II di Napoli, tirocinante ex art. 73 presso la Procura della Repubblica, praticante avvocato. Tesi di laurea in diritto amministrativo dal titolo "Pubblico e privato nei contratti pubblici: gli strumenti di collaborazione", rel Prof. Fiorenzo Liguori Tesi di specializzazione in professioni legali dal titolo "Riflessioni in tema di diritto di accesso con riferimebto al rapporto di pubblico impiego privato", rel. Prof. Maurizio Asprone Tesi del corso di perfezionamento in amministrazione e finanza degli enti locali dal titolo "luci ed ombre sulla responsabilità precontrattuale della P.A."