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Reati ostativi: per la Corte Costituzionale la mancata collaborazione non pregiudica l’ottenimento dei permessi premio.

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La Corte Costituzionale ha annunciato, con comunicato dell’Ufficio Stampa del 23 ottobre 2019, che si ritiene illegittimo costituzionalmente l’art. 4-bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario (l. 354/1975) limitatamente alla mancata concessione di “permessi premio” in assenza di collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter della stessa norma “anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. In definitiva, “la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”.

Tale decisione ha già suscitato reazioni contrastanti nello scenario giuridico e politico, soprattutto in quanto successiva alla pronuncia della Grande Camera della Corte EDU (commento della dott.ssa Mariacarmela De Falco).

In attesa del deposito della sentenza può essere, però, utile passare in rassegna le motivazioni poste alla base dell’ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, con la quale si è ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale che ha portato alla suddetta determinazione del Giudice della Legge.

La questione. La Corte di Cassazione, con ordinanza di rimessione del 20 dicembre 2018, ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del meccanismo “ostativo” previsto dall’art. 4 bis comma 1 Ord. Pen nei confronti dei soggetti condannati per i reati ivi elencati, in relazione esclusivamente all’ottenimento di permessi premio.

Invero, in relazione alla concessione del permesso premio, la norma citata preclude l’accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell’art. 58-ter Ord. Pen.

La doglianza evidenziata dal Giudice di legittimità riguarda, pertanto, il fatto che “tale preclusione assoluta, non distinguendo tra gli affiliati di un’organizzazione mafiosa e gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma, appare confliggente con i principi affermati dalla Corte costituzionale che […] ha affermato l’incompatibilità costituzionale delle presunzioni assolute di pericolosità sociale quando applicate alle condotte illecite che non presuppongono l’affiliazione a un’associazione mafiosa”.

La Corte di Cassazione richiama – ad ulteriore sostegno della non manifesta infondatezza – diverse pronunce della Corte Costituzionale e della Corte EDU con le quali si è ribadita l’importanza della funzione di risocializzazione della pena, garantita dai principi di progressività trattamentale e della flessibilità della pena radicati nell’art. 27, comma 3, Cost. (vd. Corte Cost., sent. n. 239 del 2014; Corte cost., sent. n. 76 del 2017; Corte cost., sent. n. 149 del 2018; Corte EDU, decisione della Grande Camera del 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito).

Le sentenze richiamate, aventi ad oggetto la compatibilità tra il divieto di concessione dei benefici penitenziari ed i principi che governano l’esecuzione della pena, dimostrano che il sistema delle presunzioni assolute è stato progressivamente scardinato per garantire il graduale inserimento del condannato all’ergastolo nel contesto sociale, soprattutto in riferimento all’ottenimento di benefici penitenziari, che costituisce “un tassello essenziale del vigente ordinamento penitenziario <<e della filosofia della risocializzazione che ne sta alla base>>”.

Nel caso di specie, risulta che il soggetto condannato – ininterrottamente detenuto dal 1998 – ha mantenuto un comportamento carcerario rispettoso del programma rieducativo, pur non avendo collaborato con la giustizia.

La ratio della preclusione all’ottenimento di permessi nel caso di mancata collaborazione ex art. 58-ter Ord. Pen. è quella di incentivare la stessa condotta collaborativa, “quale strategia di contrasto della criminalità organizzata attraverso la rescissione definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza”.

Tale finalità, per la Corte, appare priva di ragionevolezza nella parte in cui si applica a condotte delittuose molto eterogenee, precludendo ad un’ampia classe di condannati il diritto a ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza la possibilità di verificare in concreto le condizioni reali di pericolosità sociale.

Certamente, infatti, la scelta di collaborare ex art. 58-ter Ord. Pen. costituisce una manifestazione inequivocabile del distacco definitivo del soggetto condannato dal sodalizio mafioso.

Tuttavia, la sola mancata condotta collaborativa non può – sempre secondo la Corte –  dimostrare in termini di presunzione assoluta la cessazione dei legami consortili.

Invero, proprio in relazione alle ragioni per cui un condannato all’ergastolo ostativo non collabori, gli Ermellini sottolineano che questa scelta “può trovare spiegazione in valutazioni che prescindono dal percorso rieducativo, tra le quali, a titolo meramente esemplificativo, si possono citare il  rischio per l’incolumità propria e dei propri familiari; rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un congiunto o  di persone legate da vincoli affettivi; ripudio di una collaborazione di natura meramente utilitaristica”.

La non manifesta infondatezza della questione di legittimità trova conforto nella peculiarità del sistema dei “permessi premio”. Questi, infatti, non possono essere assimilati alle misure alternative alla detenzione, in quanto “non modificano le condizioni restrittive del condannato”. Costituiscono parte essenziale del trattamento rieducativo, tanto che la loro mancata concessione per presunzione assoluta di pericolosità potrebbe compromettere la stessa finalità costituzionale della pena detentiva.

Tali permessi, infatti, “trovano fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalità immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, che li caratterizza come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate”.

L’impostazione ermeneutica così tracciata dal Giudice di legittimità sembra avvalorata dalla pronuncia della Corte Costituzionale (sent. 149/2018, già citata) secondo la quale non è “possibile sacrificare la funzione rieducativa riconosciuta dall’art. 27, terzo comma, Costituzione sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”, dovendosi pertanto procedere ad una valutazione individualizzata del trattamento penitenziario che dimostri la sussistenza concreta di esigenze di prevenzione speciale.