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Diritto Penale. La soglia di punibilità nel delitto di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. La soglia di punibilità nel delitto di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale

<<In ordine alla configurabilità del delitto di cui all’art. 270 quater c.p., la nozione di “arruolamento” è equiparabile a quella di “ingaggio”, da intendersi come raggiungimento di un serio accordo tra soggetto che propone il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo e soggetto che aderisce. Non può pertanto escludersi, in via dogmatica, la realizzazione in forma tentata del delitto di arruolamento>>.

Di grandissima attualità, la sentenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione dello scorso 9 ottobre, compie una puntuale analisi del delitto di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale ex art. 270 quater c.p., riconoscendone, come si evince dalla massima riportata e contrariamente alla decisione di merito, la punibilità anche nella forma del tentativo ai sensi dell’art. 56 c.p.. Introdotta con il d.l. 144 del 27 luglio 2005 (conv. con mod. in l. n. 155 del 31/07/2005), la citata disposizione normativa si inserisce in un complesso sistema di tutela (da ultimo arricchito con il  Decreto-Legge 18 febbraio 2015, n. 7, con cui prosegue da parte del legislatore, l’attualizzazione delle sanzioni penali alle trasformazioni del terrorismo internazionale, in particolare di quello di matrice islamica) teso a realizzare quelle forme di incriminazione derivanti dalla Convenzione del Consiglio d’Europa redatta a Varsavia il 16 maggio del 2005, attesa la straordinaria urgenza e necessità di rafforzare gli strumenti di prevenzione e di repressione del terrorismo.

In via preliminare, il Collegio si sofferma sul significato da attribuire al termine “arruola”, il cui utilizzo, alla luce nelle numerose opinioni espresse anche dalla dottrina, non appare nel contesto normativo di riferimento, dei più felici.

Sul punto, la Corte rileva che l’art. 6 della citata Convenzione di Varsavia, in tema di recruitment  individua quale condotta rilevante la sollecitazione/induzione individuale, diretta alla partecipazione del soggetto contattato nella realizzazione di un’offesa terroristica o alla adesione all’associazione avente tale finalità. Sebbene tale riferimento non sia decisivo nell’individuare la corretta interpretazione logico-sistematica della norma prevista dal legislatore italiano, può comunque essere di ausilio ai fini della ricostruzione della voluntas legis.

In prima approssimazione, l’espressione normativa evoca il “fatto” dell’inserimento effettivo del soggetto arruolato in un “ruolo” militare, in modo non dissimile da quanto previsto dalla diversa fattispecie di cui all’art. 244 c.p. (<<atti ostili verso uno stato estero che espongono lo stato italiano al pericolo di guerra>>, ove è punita la condotta di chi, senza l’approvazione del governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno stato estero, in modo da esporre lo stato italiano a pericolo di guerra). Tuttavia, la nozione di arruolamento – inserita nel corpo dell’art. 244 -implica non solo la stipulazione di un contratto, ma anche l’inquadramento dell’arruolato in una struttura di tipo militare in senso effettivo. Depone in tal senso lo stesso presupposto dell’assenza della “approvazione del governo”, così come la condizione di punibilità rappresentata dal “pericolo di una guerra”, il che sottende scenari di potenziale belligeranza tra eserciti regolari. Da tanto la Corte desume che nessuna similitudine di contesto e di finalità è dato riscontrare tra le due norme in esame (art. 244 e art. 270 quater) e conclude che, ferma restando l’identità lessicale, il termine sia stato utilizzato dal legislatore del 2005 in senso parzialmente diverso.

Il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo (e ancor di più il sabotaggio), infatti, non implica né presuppone l’esistenza di un regolare esercito, quanto di formazioni organizzate di tipo paramilitare, anche con ristretto numero di aderenti, a composizione mobile, necessariamente idonee alla mimetizzazione, fermo restando che, nei casi di maggior gravità, possono riscontrarsi forme organizzative dotate di tendenziale stabilità e rilevanza locale che ne accentuano il carattere militare.  Appare dunque necessario esplorare la nozione di arruolamento di cui all’art. 270 quater calando l’utilizzo del termine nel contesto espressivo globale della disposizione, tenendo presente la forte valorizzazione normativa dello scopo dell’atto qualificato come illecito. In tal senso, pur non potendosi certo equiparare il termine “arruolamento”, scelto dal legislatore, al diverso e più ampio concetto di “reclutamento”, è necessario affermare che il significato può essere affiancato alla nozione di ingaggio, intesa come raggiungimento di un “serio accordo” tra soggetto che propone (il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo) e soggetto che aderisce. Tale conclusione è imposta da una serie di argomenti che i giudici di legittimità passano in rassegna: a) La differenza obiettiva tra i concetti di reclutamento e arruolamento è presente nella legislazione italiana in virtù dell’avvenuta ratifica, con L. 12 maggio 1995, n. 210, della Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 4 dicembre 1989. Detta Convenzione internazionale mira a reprimere il fenomeno dell’ingaggio, in formazioni militari o paramilitari, caratterizzato non già da adesione ideologica a scopi latamente politici o religiosi, quanto dal vantaggio economico che ne deriva per il soggetto reclutato, in presenza delle condizioni e finalità dell’azione descritte nel testo dell’atto. Ora, all’art. 4 della legge di ratifica si punisce espressamente la condotta del “reclutare”, intesa come comprensiva di ogni attività di reperimento di persone disponibili ad operazioni militari mercenarie e di raggiungimento di un accordo, finalizzato al loro impiego. Trattasi pertanto di condotta inclusiva – sotto il profilo del rilievo penale – della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato.  b) La scelta, da parte del legislatore nel 2005, del termine “arruola” (in luogo di recluta) non può pertanto ritenersi priva di valore, nel senso che è da ritenersi espressiva della volontà di “fissare” il momento consumativo del reato in una fase più avanzata rispetto a quella della mera proposta (da parte del reclutante) o trattativa, anche in ragione del particolare settore in cui è collocata la norma (la finalità di terrorismo) e del relativo rischio di confondere l’attività di mero proselitismo ideologico con il fatto tipico di reato. c) Ciò, tuttavia, non consente di affermare che la consumazione del delitto di arruolamento debba essere collocata “oltre” rispetto al momento del raggiungimento del “serio accordo” tra arruolante e arruolato, ove l’accordo risulti qualificato dalla “doppia finalità” prevista dalla norma incriminatrice (compimento di atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo) e ciò in quanto è il raggiungimento dell’accordo (nei suddetti termini) ad integrare il disvalore del fatto ed a porsi come momento di raggiungimento dell’elevato pericolo (in tesi presunto) cui è correlata la punibilità.

In effetti, ciò che la norma intende reprimere è l’accrescimento umano (anche un di un solo soggetto) della potenzialità di offesa del sottostante gruppo (militare, paramilitare, semplice cellula operativa) avente la finalità “specializzante” di cui all’art. 270 sexies – in ragione del particolare valore dei plurimi beni giuridici protetti – e tale effetto si raggiunge in virtù della conclusione dell’accordo, al di là degli eventi successivi, che non appaiono presi in considerazione da tale segmento del più ampio sistema di tutela. In più, evidenzia la Corte, la mancata punibilità nella previsione originaria della norma (oggi significativamente emendata con il d.l. del febbraio 2015) dell’arruolato, ben può essere dipesa dalla considerazione (lì dove gli atti programmati siano stati dal medesimo realizzati con inserimento effettivo nella struttura operativa) della sua possibile punibilità ai sensi dell’art. 270-bis in una logica legislativa di estensione dell’area di punibilità incentrata, all’epoca, sulla condotta “concludente” dell’arruolante. Del resto, l’assetto che qui si ricostruisce – con l’identificazione del momento consumativo del reato in quello del serio accordo – appare rafforzato, sul piano logico, proprio dalla recente introduzione della punibilità dell‘arruolato, peraltro prevista con pena inferiore rispetto al massimo edittale stabilito per il partecipe, posto che viene valorizzato il semplice effetto di incremento della potenzialità di offesa del gruppo.

Ciò che rileva, a parere del Supremo Collegio, è che l’accordo di arruolamento abbia non solo il carattere della serietà – intesa da un lato come autorevolezza della proposta (il proponente deve avere la concreta possibilità di inserire l’aspirante nella struttura operativa una volta concluso l’ingaggio) e dall’altro come fermezza della volontà di adesione al progetto – ma soprattutto sia caratterizzato in modo evidente dalla doppia finalizzazione prevista dalla norma (con relativa pienezza dell’elemento psicologico) il che giustifica la sua incriminazione, per quanto sinora detto. Una volta raggiunto tale assetto – in ordine alla determinazione del momento consumativo del reato – non può, peraltro, escludersi in via generalizzante e dogmatica l’ipotesi del tentativo punibile in rapporto a condotte poste in essere dal soggetto proponente e tese, con i caratteri di cui all’art. 56 c.p., (ed in presenza dei descritti presupposti di contesto e finalistici) al raggiungimento del suddetto accordo. Non è infatti la particolare natura del reato (di pericolo) ad impedire – di per sé – l’applicazione della generale previsione estensiva di cui all’art. 56 c.p., quanto la struttura della singola fattispecie e la possibilità o meno di identificare in concreto una “progressione della esposizione a pericolo” dei beni giuridici protetti.

Nel caso in esame, essendo il reato consumato incentrato su un evento (per quanto detto, il serio accordo) altamente pericoloso, è da ritenersi tollerabile ed identificabile in concreto (ferme restando le complessità probatorie) una progressione (nell’attività tesa alla promozione e realizzazione dell’accordo) tale da integrare la soglia di punibilità della condotta, con l’ovvia necessità di distinguere i caratteri del tentativo punibile rispetto alla attività di mero proselitismo o libera manifestazione del pensiero e con l’altrettanto avvertita necessità di confrontarsi con le scelte di incriminazione operate dal legislatore e relative a fattispecie analoghe (art. 302 c.p., art. 414 c.p.). Va evidenziato, sul punto, che la recente tendenza normativa appare essere proprio quella della tipizzazione (con tutta la complessità interpretativa che il tema pone) di ipotesi di tentativo punibile, lì dove – ad esempio – si considerino le condotte descritte all’art. 270 quater c.p., ed in particolare quella del propagandare viaggi in territorio estero finalizzati al compimento di condotte con finalità di terrorismo.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 09-09-2015) 09-10-2015, n. 40699

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORTESE Arturo – Presidente –

Dott. TARDIO Angela – Consigliere –

Dott. SANDRINI Enrico G. – rel. Consigliere –

Dott. CASA Filippo – Consigliere –

Dott. MAGI Raffaello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

Sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BRESCIA;

nei confronti di:

E.E. N. IL (OMISSIS);

H.M. N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 146/2015 TRIB. LIBERTA’ di BRESCIA, del 24/04/2015;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MAGI RAFFAELLO;

lette/sentite le conclusioni del PG Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Udito il difensore Avv. BUCCI E. e CAPRA R., che hanno chiesto, per i rispettivi assistiti, il rigetto del ricorso.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Brescia in data 26 febbraio 2015 accoglieva, per quanto qui rileva, la richiesta del Pubblico Ministero presso il medesimo ufficio giudiziario tesa all’applicazione nei confronti di E.E. (soggetto di nazionalità albanese) della misura della custodia cautelare in carcere in riferimento alla provvisoria contestazione del delitto di cui all’art. 270 quater c.p..

In particolare, la contestazione mossa ad E.E. – in concorso con E.A. ed altro soggetto – concerne la vicenda di “arruolamento” di E.A.A. e B.A.M. nelle fila del gruppo terroristico denominato “stato islamico” per il compimento di atti di violenza consistenti nella partecipazione al conflitto armato in atto in Siria, con finalità di terrorismo di matrice islamista, condotta meglio descritta alla pagina 1 della suddetta ordinanza.

Il GIP ha ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e le esigenze cautelari in riferimento alla condotta di “tentativo di arruolamento” posta in essere nei confronti del solo B.A. M., applicando la custodia in carcere.

In riferimento a detto titolo cautelare il Tribunale di Brescia – costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., – con ordinanza emessa in data 24 aprile 2015 ne ha disposto l’annullamento, con immediata liberazione di E.E..

1.1 Conviene pertanto esaminare in via prioritaria detta vicenda, sottoposta alla attenzione di questa Corte di legittimità in virtù del ricorso proposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Brescia avverso l’ordinanza emessa dal Tribunale del Riesame.

Le attività di indagine poste in essere nei confronti di E. E. – nato nel (OMISSIS) e dimorante in provincia di (OMISSIS) – e di suo zio E.A. – classe (OMISSIS) e residente in (OMISSIS) – rappresentano il seguito di precedenti verifiche sulle condotte di E.A.A..

Costui, di nazionalità marocchina, risulta destinatario di misura cautelare emessa dallo stesso GIP del Tribunale di Brescia nel giugno dell’anno 2013 per l’ipotesi di reato di cui all’art. 270 quinquies c.p., ( addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale).

Scarcerato per carenza di indizi dal Tribunale del Riesame in data 25 giugno 2013 E.A., per quanto emerge dagli atti, si sarebbe recato effettivamente dall’Italia in Siria – nel successivo mese di settembre dell’anno (OMISSIS) – per arruolarsi nella formazione terroristica IS (stato islamico).

Gli elementi emersi sull’effettivo arruolamento di E.A. consentivano di accertare la partenza del medesimo da (OMISSIS).

Venivano altresì acquisite immagini che riproducono il suddetto E. A. in atteggiamenti inequivoci (in armi e con la bandiera dell’IS) nonchè stralci di intercettazioni telefoniche del gennaio 2014 da cui si ricava con certezza il dato della presenza del soggetto in Siria.

Emergeva inoltre che E.A. prima di partire da (OMISSIS) si era recato in (OMISSIS) (il giorno (OMISSIS), facendo rientro il (OMISSIS)) ma era stato fermato dalla polizia di frontiera e costretto a rientrare in Italia.

Sempre in data 6 settembre risultano censiti un contatto telefonico tra E.A. e E.A., e un contatto telefonico tra E. A. ed E.E..

Gli elementi emersi in riferimento all’arruolamento di E.A. non venivano – in ogni caso – ritenuti tale da integrare, già in una precedente decisione, il presupposto della gravita indiziaria nei confronti di E.E. e E.A..

Diversa, per il GIP, la vicenda che concerne il minore B.A. M., residente in provincia di Como.

Nell’esaminare i dati indizianti il GIP evidenzia che le attività rogatoriali hanno consentito di delineare la figura di E.A. (dimorante in (OMISSIS)) quale soggetto effettivamente in grado di “avviare” in Siria potenziali militanti dell’ISIS. Viene, in particolare, illustrata la vicenda riguardante Ba.

I., soggetto albanese che sarebbe entrato a far parte dell’esercito irregolare dello stato islamico e sarebbe deceduto a seguito di ferite riportate durante un’azione di guerra in (OMISSIS).

Tra E.A. e Ba. vi è legame familiare, essendo il Ba. marito di una sorella di E.A..

Dalle indagini svolte in (OMISSIS) risulta che E.A. avrebbe prestato ausilio all’arruolamento di Ba.Id..

Il GIP ritiene tale affermazione sostenuta da alcune risultanze investigative, posto che il (OMISSIS) proprio E.A. veniva contattato da una donna che gli comunicava le gravissime condizioni del Ba., colpito durante un combattimento.

Inoltre emergevano tentativi di contatti telefonici anche nel mese di (OMISSIS) tra E.A. e E.A.A., il che porta a ritenere che la trasferta in (OMISSIS) di E.A. nel (OMISSIS) (interrotta in modo forzoso) fosse una tappa verso la Siria, fermo restando che il suo fallimento determinò il rientro in Italia di E.A..

Ed ancora si indica a riscontro dell’inserimento di E.A. nel circuito relazionale caratterizzato da radicalisimo religioso una conversazione inter alios del 28 ottobre 2014 (tra familiari di E.A.) riportata in sintesi a pag. 9 dell’ordinanza genetica, nonchè un contatto intervenuto tra E.A. e l’ I.M. M., coinvolto in un procedimento per condotte di reclutamento di combattenti da inviare in (OMISSIS).

Tali elementi vengono ritenuti utili a delineare il tipo di rapporto esistente tra E.A. e suo nipote, E.E., quest’ultimo residente in Italia, e a qualificare – da parte del GIP – in termini di “tentato arruolamento” il rapporto tra E.E. e il minore B.A.M..

E’ pacifico infatti che B.A. non è mai partito alla volta della Siria e non è mai entrato a far parte di alcuna compagine militare o paramilitare.

Tuttavia l’analisi dei contatti intervenuti tra E.E. e B. A. viene letta dal GIP in chiave confermativa dì una sollecitazione ad arruolarsi, in un primo momento raccolta dal giovane marocchino.

In particolare, in data (OMISSIS) E.E., nel conversare in “chat” con l’ignoto A.I. affermava, a proposito di un “minorenne” che costui sarebbe “andato da solo”, o:

… al massimo si riunirà con qualcuno che sa come direzionarsi, ho provato a chiedere ad A. ma non risp. .. entra raramente..”.

L’interlocutore di E.E. si mostra preoccupato per la questione dell’età, dovendo il minore, in ipotesi ..prendere un aereo .. e in ogni caso .. deve avere anche il permesso dei genitori … La conversazione viene poi rapidamente interrotta con l’espressione.. “fratello non possiamo allungare la discussione, a te andrebbe di passare una giornata insieme ? quando te lo chiederò ci sarà anche lui e se vuoi porta qualche amico..”.

Il riferimento al minorenne, fatto da E.E., viene interpretato come rivolto a B.A.M. e il riferimento ad A. viene ricollegato alla persona di E.A.A., all’epoca già partito per la Siria.

Tra E.E. e B.A.M. sono intervenuti contatti diretti, riportati da pag. 11 a pag. 20 dell’ordinanza genetica.

Proprio nel febbraio del 2014 durante una conversazione in chat tra i due B.A. affermava .. fratello apro una parentesi per il hur, che tu sei l’unico mio sostegno e di cui mi posso fidare.. .

Il riferimento viene ritenuto significativo, posto che secondo la tradizione islamica l’hur è riferito al principio religioso per cui giovani donne attenderebbero nel paradiso (jennah) coloro che in base al decreto di Allah vi sarebbero destinati e tra le condizioni richieste per accedere al beneficio vi sarebbe il martirio.

Il riferimento all’Hur è ripreso da B.A. in una successiva conversazione ove si afferma .. è tutto dopo settembre .. .

Le aspirazioni jiadhiste di B.A. vengono ritenute chiare ed evidenti anche dal contenuto di altre conversazioni relative agli scenari del conflitto in atto, (OMISSIS).

In tale contesto si colloca l’esame dei successivi sviluppi della vicenda.

Già il (OMISSIS) E.E., intercettato, parla con lo zio E.A. di un altro “fratello” ritenuto da E. “pronto per la”.

In una successiva conversazione del 14 aprile 2014 si parla – tra i due – di un incontro in Torino cui avrebbe dovuto prendere parte “un amico di A… e quello”, altro soggetto già noto allo zio.

L’incontro in questione, tra E.E. e tali due soggetti, sarebbe realmente avvenuto il (OMISSIS), quando B.A., intercettato, avvisava E.E. di trovarsi in un parcheggio sotterraneo sito in Torino.

Subito dopo emerge che è lo stesso E.A. ad attivarsi per raggiungere l'(OMISSIS).

Costui raggiunge l’Italia il 13 giugno del 2014 con un volo Tirana – Torino.

Il giorno seguente E.E., parlando con B.A.M. lo invitava di nuovo a Torino perchè doveva .. fargli conoscere una persona.. . Nel contatto tra i due si faceva riferimento alla vicenda del conflitto siriano e, successivamente, il B.A. esternava dei suoi possibili ripensamenti … non lo so fratello., non saprei più .. e, di seguito ci vuole quell’aiuto di Allah, per adesso non sento ancora il momento …

Veniva in ogni caso preso un appuntamento a Torino per il giorno successivo, il 15 di giugno, appuntamento che tuttavia B.A. non rispettava, affermando di aver perso il treno che da Como avrebbe dovuto portarlo a Milano e successivamente a Torino. Nel corso del colloquio telefonico intercettato tra i due ( E.E. e B. A.) 11 giovane marocchino fa riferimento a .. dopo settembre, riferimento che viene “interpretato dal GIP come una conferma dell’intenzione di B.A. di “arruolarsi” ma solo dopo il compimento del diciottesimo anno di età.

Non sono state intercettate conversazioni tra i due successive al mese di (OMISSIS).

Viene inoltre riportata nel titolo genetico una intercettazione ambientale di una conversazione avvenuta tra B.A.M. e i suoi genitori il (OMISSIS).

A seguito di notizie giornalistiche su possibili partenze di jiadhisti dall’Italia verso i fronti di guerra in atto, si registrava un litigio tra B.A.A. e B.A.M. nel corso del quale il primo affermava, in riferimento all’Iraq .. tu vuoi andare ? e il figlio rispondeva .. si.

Alle domande della madre, che lo invitata a recedere da un simile proposito .. non lo so, tra un anno, due … quando finisco, non lo so., non so ancora niente… . Nel dialogo si affrontava apertamente il tema del jihad, con considerazioni critiche da parte della madre per le recenti scelte di dirigere l’azione militare verso i fratelli arabi e non verso il vero nemico, Israele.

Vengono infine riportate altre risultanze investigative diverse dai contatti tra E.E. e B.A.M. ma significative dell’adesione di E.E. al progetto del proclamato Stato Islamico.

A parere del GIP, pertanto, le attività svolte da E.E. – in costante contatto con lo zio E.A. – consentono di ritenere integrata la gravita indiziaria circa il delitto di arruolamento, nella forma tentata.

Si afferma, in particolare, che il delitto è integrato da ogni condotta che rechi ausilio all’effettivo inserimento di un soggetto nella formazione di matrice terroristica.

La capacità di E.A. di avere contatti tali da consentire detto arruolamento viene ritenuta sussistente e viene ritenuta chiara la finalità e l’apporto concorsuale di E.E. nel rapporto intrattenuto con il B.A..

Il mancato raggiungimento dello scopo, dovuto al “ripensamento” di B.A. rende il fatto punibile, ad avviso del GIP, come tentato arruolamento.

Ne deriva, in unione alle ulteriori valutazioni espresse in punto di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza, l’applicazione della misura.

  1. Conviene sintetizzare, su detto assetto indiziario, le valutazioni espresse dal Tribunale del Riesame nei confronti di E.E..

In premessa, oltre a rievocare il contenuto degli atti già valutati dal GIP si compie riferimento ad un elemento conoscitivo sopravvenuto, rappresentato dalle dichiarazioni rese da B.A. M..

Costui dichiarava di aver effettivamente discusso con E.E. di un possibile viaggio in Siria, luogo ove E. avrebbe potuto farlo andare tramite contatti che lo stesso E. aveva in Albania.

B.A. affermava altresì di aver poi maturato l’idea di non voler più partire, ma non aveva il coraggio di dirlo ad E. E..

Valutando nel complesso i dati emersi, il Tribunale riteneva non raggiunta la consistenza indiziaria prevista – in termini di gravita – dall’art. 273 c.p.p..

Il Tribunale valorizzava, nella economia della decisione, un precedente rigetto che era stato emesso dal GIP in data 7 gennaio 2015, aspetto che consentiva di evidenziare la complessiva fragilità del quadro indiziario, dato che gli elementi sopravvenuti (conversazione tra B.A. e i genitori ed ulteriore attività di propaganda svolta tramite internet da E.E.) non risultano, ad avviso del collegio di merito, decisivi, anche se valutati congiuntamente a quelli già ritenuti inidonei.

In termini dogmatici il Tribunale di Brescia mostra – inoltre – perplessità sulla qualificazione giuridica attribuita al fatto dal GIP, dubitando della possibile configurazione -in diritto- del “tentativo di arruolamento”.

Si afferma, in tale parte della decisione, che l’incriminazione della condotta di arruolamento è stata realizzata con il D.L. n. 144 del 2005 in un’ottica di anticipazione della soglia di tutela dei beni giuridici protetti dalle fattispecie in tema di terrorismo.

Trattandosi di reato di pericolo concreto, ciò pone il tema della stessa possibilità di porre in essere una operazione di ulteriore anticipazione dell’intervento repressivo mediante l’applicazione dell’art. 56 c.p..

Ne deriva, ad avviso del Tribunale, la non configurabilità – in diritto – della fattispecie di “tentato arruolamento”.

La condotta, peraltro, viene ritenuta ratione temporis punibile esclusivamente in direzione dell’arruolante (essendo la punibilità dell’arruolato stata prevista solo con il recente D.L. 18 febbraio 2015) e consiste – ad avviso del Tribunale – nella “iscrizione nei ruoli del servizio militare1 (si cita massima relativa al delitto di cui all’art 244 c.p.).

Quanto alle osservazioni di merito, il Tribunale riteneva altresì che gli elementi di prova emersi ” non sono tali da far ritenere che E.E. e E.A. avessero capacità di arruolamento nelle fila dell’ISIS o fossero in diretto contatto con persone aventi tali potestà ” il che poneva in dubbio, a voler ritenere configurabile il tentativo, la idoneità degli atti compiuti.

Tale affermazione deriva da alcune valutazioni, così espresse:

  1. a) E.E. e E.A. non risultano associati a formazioni terroristiche nè risultano mandatari di tale associazione;
  2. b) gli stessi, per il Tribunale, non risultano essere in diretto contatto con soggetti o capaci di arruolare nuovi adepti nelle fila dell’ISIS, ferma restando la contiguità ideologica agli ambienti del radicalismo islamico.

La stessa vicenda relativa a Ba.Id. non viene ritenuta, a tal fine, significativa, posto che trattasi di un parente degli E. e non vi è prova di una effettiva incidenza di E.A. nella sua scelta di arruolarsi.

Si afferma inoltre che non è verosimile che l’adesione alla formazione terroristica possa avvenire nel modo descritto nelle indagini, senza che l’organizzazione verifichi l’origine e l’intenzione dell’arruolando.

In sostanza le condotte emerse si sarebbero arrestate ad una forma di proselitismo non punibile senza esprimere concreta idoneità a realizzare un arruolamento.

Anche le affermazioni di B.A. – confermative della progettualità e delle proposte ricevute da E.E. – vengono ritenute generiche, posto che non si comprende se realmente E. E. avesse la possibilità di far arruolare il suo interlocutore o se i contatti fossero solo millantati.

Viene inoltre esclusa la ulteriore riqualificazione della condotta di E.E. in termini di istigazione punibile ai sensi dell’art. 302 c.p., posto che la condotta dell’arruolato all’epoca del fatto non era punibile.

  1. Quanto alla diversa vicenda cautelare che ha visto coinvolto H.E.M., va ricordato che costui è stato raggiunto da una contestazione provvisoria relativa al delitto di apologià di reato di cui all’art. 414 c.p., comma 4, – aggravato dalla finalità di terrorismo – per l’avvenuta diffusione in rete internet di un documento intitolato lo stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare, avvenuta il (OMISSIS).

Il tema qui rilevante – stante il contenuto del ricorso in esame – sta nel fatto che in rapporto a detta contestazione, ritenendo sussistenti i presupposti di legge, il GIP di Brescia in data 23 marzo 2015 applicava la custodia cautelare in carcere.

Il Tribunale del Riesame, con la medesima ordinanza emessa il 24 aprile 2015 (già illustrata in rapporto alla posizione di E. E.) dichiarava l’incompetenza territoriale del Tribunale di Brescia in favore del Tribunale di Ivrea (con trasmissione degli atti ai sensi dell’art. 27 c.p.p., al PM presso detto ufficio) e, riconosciuta l’urgenza di soddisfare il pericolo di reiterazione, sostituiva la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari.

Le valutazioni del Tribunale – riconosciuta la ricorrenza della gravita indiziaria in rapporto a modalità di diffusione e contenuti del documento, definito il primo strumento di propaganda redatto in lingua italiana e diffuso in rete – concernono la competenza per territorio, che viene attribuita al GIP presso il Tribunale di Ivrea (luogo di probabile immissione in rete del documento e comunque di residenza dell’indagato) e l’adeguatezza della misura in atto (sia pure in via provvisoria).

Il Tribunale ritiene adeguata la misura degli arresti domiciliari rinforzata dal divieto di comunicare – con qualsiasi mezzo – con persone diverse da quelle che con lui coabitano.

Ciò in riferimento alle modalità del fatto, alla sua stessa natura, alla condotta collaborativa tenuta in sede di indagini ed all’assenza di presunzione legale di adeguatezza della sola custodia in carcere.

  1. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Brescia.

4,1 Quanto alla decisione relativa ad E.E. si deduce erronea applicazione delle norme regolatrici e vizio di motivazione, anche sub specie travisamento del fatto.

Il ricorso contesta in diritto l’interpretazione fornita dal Tribunale in punto di configurabilità del “tentativo di arruolamento”.

Il tema, dalla notevole complessità teorica, non può essere affrontato in termini astratti e relativi alla categoria dei reati di pericolo ma va risolto sulla base della interpretazione semantica dei contenuti normativi, sì da ricostruire la concreta fattispecie e la ratio della incriminazione.

Nel caso in esame si sostiene che per “arruolamento” non può intendersi – come fa il Tribunale – l’effettiva iscrizione nei ruoli del servizio militare.

Tale lettura è stata fornita da questa Corte di legittimità in rapporto alla diversa fattispecie di cui all’art. 244 c.p., avente un differente ambito applicativo.

La norma incriminatrice di cui all’art. 270 quater , anche in rapporto alla sua genesi e alle fonti sovranazionali di riferimento (Convenzione del Consiglio d’Europa del 16 maggio 2005, in Varsavia) avrebbe un più ampio oggetto di tutela, essendo tesa ad incriminare forme tipizzate di contiguità associativa non necessariamente comportanti l’immissione in possesso del soggetto reclutato.

Si compie riferimento ai contenuti dell’art. 6 della citata convenzione al fine di sostenere che la norma incriminatrice in questione considera punibile anche la condotta favoreggiatrice del concreto inserimento in una formazione armata con scopi di terrorismo.

Arruolamento sarebbe pertanto sinonimo di reclutamento e la punibilità non potrebbe essere esclusa dal mancato inserimento dell’aspirante nelle fila del gruppo militare.

In secondo luogo nel ricorso si rappresenta l’esistenza di vizi motivazionali in punto di ricostruzione della condotta tenuta da E.E. e E.A..

Si afferma che numerosi elementi di accusa risultano non valutati o comunque non è stata fornita corretta interpretazione dei loro contenuti.

Ciò in particolare per quanto riguarda l’analisi dei contatti tra E.A. e il fronte terrorista, che erano emersi – ad avviso del PM impugnante – in modo evidente e che erano richiamati nel titolo genetico.

Da ciò deriva l’incongruenza motivazionale nella parte in cui il Tribunale considera – in ogni caso – non idonei gli atti posti in essere da E.E. e diretti ad arruolare il minore B.A..

Vi sarebbe stata, sul tema, frammentazione dei dati indizianti e omessa considerazione proprio di quelli che supportavano maggiormente l’ipotesi di accusa.

Vengono ribadite, pertanto, le fonti di prova relative alle condotte tenute in territorio albanese da E.A. e ne viene rilanciata la valenza informativa.

Si afferma inoltre che vi è sottovalutazione o comunque travisamento del contenuto dei messaggi via chat relativi alla chiara intenzione di B.A., stimolata da E.E., di partire per la Siria.

Intenzione peraltro ribadita dallo stesso B.A. in un verbale reputato dal Tribunale illogicamente generico.

Si insiste pertanto per la rilevazione del vizio di motivazione.

4.2 In riferimento alla decisione emessa nei confronti di H.E. M. il PM impugna la decisione deducendo il vizio di abnormità.

La censura concerne l’avvenuto affievolimento del regime cautelare – con sostituzione della misura – nell’ambito di decisione ove il Tribunale rileva una incompetenza territoriale con trasmissione contestuale degli atti ai sensi dell’art. 27 c.p.p..

Sul punto, il PM invoca l’applicazione di un orientamento giurisprudenziale di questa Corte (da ultimo Sez. 6^ rv 261539) che evidenzia la preclusione a vantazioni di merito lì dove venga rilevato dal Tribunale del Riesame un vizio di competenza del GIP emittente la misura.

Il Tribunale, in tale ipotesi, dovrebbe mantenere in atto il provvedimento provvisorio senza compiere alcuna valutazione e trasmettere gli atti al GIP ritenuto competente.

Inoltre, si afferma che ulteriore profilo di abnormità sarebbe rinvenibile nella individuazione del GIP competente in quello di Ivrea in luogo del GIP distrettuale di Torino, essendo stata contestata l’aggravante della finalità di terrorismo.

Detta aggravante, peraltro, rientra nel perimetro applicativo dell’art. 275 c.p.p., comma 3, con divieto – ancora sussistente – di applicare misure diverse da quella della custodia in carcere.

  1. Con memoria del 29 luglio 2015 il difensore di H.E.M. prospettava la inammissibilità del ricorso proposto dal P.M. di Brescia.

Ciò in rapporto alla denunzia di abnormità, posto che la stessa viene formulata in termini generici ed in ogni caso infondati, essendo da ritenersi sussistente il potere di “graduazione” della misura in capo al Tribunale.

In ogni caso si rappresentano gli sviluppi procedimentali, con avvenuta emissione di nuovo e autonomo titolo cautelare da parte del GIP del Tribunale di Torino in data 13 maggio 2015, con applicazione degli arresti domiciliari.

Vi sarebbe pertanto sopravvenuta carenza di interesse, stante l’esistenza di tale diverso ed autonomo titolo cautelare.

 

Motivi della decisione

 

  1. Il ricorso proposto dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Brescia è fondato e va accolto, limitatamente alla posizione di E.E.. Va invece dichiarato inammissibile in riferimento a quella di H.E.M., per le ragioni che seguono.
  2. Nell’affrontar e i temi posti dal ricorrente e relativi al contenuto del provvedimento impugnato, vanno operate alcune premesse in diritto relative alla stessa previsione incriminatrice di cui all’art. 270 quater c.p., oggetto di diversa lettura da parte dei diversi attori intervenuti nella procedura incidentale di merito.

2.1 Detta disposizione, introdotta dal D.L. 27 luglio 2005, n. 144, art. 15, (conv. con mod. in L. n. 155 del 31.7.2005), va considerata quale frammento di un più ampio sistema di tutela (oggetto di ulteriore intervento ampliativo con il recente D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni dalla L. 17 aprile 2015, n. 43) teso a realizzare forme di incriminazione in larga misura derivanti dai contenuti della Convenzione del Consiglio d’Europa per la prevenzione del terrorismo redatta a Varsavia il 16 maggio del 2005 (firmata dall’Italia in data 8 giugno 2005 ma a tutt’oggi non ratificata dal nostro paese).

Con il detto decreto legge ..ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di rafforzare gli strumenti di prevenzione e contrasto nei confronti del terrorismo internazionale, anche alla luce dei recenti gravissimi episodi con l’introduzione di ulteriori misure preventive e sanzionatone., venivano introdotte – per quanto qui rileva – le fattispecie che seguono:

art. 270-quater (Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale).

Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 270-bis, arruola una o più persone per il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

Art. 270-quinquies. (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale). – Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonchè di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata”.

La legge di conversione n. 155 del 31 luglio 2005, oltre a modificare il contenuto delle previsioni incriminatrici testè formulate introduceva – tra l’altro – l’ulteriore art. 270 sexies teso a normativizzare la nozione della finalità di terrorismo.

Ne deriva il seguente assetto normativo, vigente al momento dei fatti oggetto del procedimento incidentale (senza tener conto della modifica operata con il citato D.L. del febbraio 2015):

“Art. 270-quater. (Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale). – Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’articolo 270-bis, arruola una o più persone per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità’ di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da sette a quindici anni.

Art. 270-quinquies. (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale). – Chiunque, al di fuori dei casi di cui all’art. 270-bis, addestra o comunque fornisce istruzioni sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonchè di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità’ di terrorismo, anche se rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

La stessa pena si applica nei confronti della persona addestrata.”.

Art. 270-sexies (Condotte con finalità’ di terrorismo). – 1. Sono considerate con finalità1 di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonchè’ le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità1 di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia”.

E’ necessario ricordare, inoltre, che già a seguito dei contenuti del D.L. 18 ottobre 2001, n. 374 (conv. con mod. con L. n. 438 del 15 dicembre 2001) la finalità di terrorismo caratterizzante la fattispecie associativa di cui all’art. 270 bis c.p. ricorre anche quando gli atti di violenza (di cui il gruppo si propone il compimento) sono rivolti contro uno stato estero, una istituzione e un organismo internazionale, così come con la medesima novellazione del 2001 è stata introdotta – in tale settore – la fattispecie incriminatrice di assistenza agli associati di cui all’art. 270 ter.

Trattandosi, peraltro, di delitti inclusi nel capo primo (delitti contro la personalità internazionale dello Stato) del titolo primo del libro 2^ c.p. vanno ritenute applicabili – salva la particolare natura delle fattispecie e la compatibilità di sistema – le previsioni degli articoli 302 (punibilità della mera istigazione) e 304 (punibilità del mero accordo) derogatrici delle regole ordinarie poste in tema di concorso di persone nel reato (art. 115).

2.2 Il sistema di tutela in esame, pur senza includere l’analisi delle ulteriori modifiche apportate di recente (il D.L. del 2015, per quanto di interesse, introduce la punibilità del soggetto arruolato con doppia clausola di riserva espressa sia in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 270 bis che a quella del art. 270 quinquies e pena inferiore nel massimo a quella relativa al partecipe dell’associazione o all’addestrato, nonchè incrimina – art. 270 quater 1 – in via autonoma l’organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo realizzata anche tramite propaganda, oltre a punire l’autoaddestramento caratterizzato da univoca finalizzazione al compimento di atti di terrorismo..) appare dunque decisamente orientato a realizzare una tipizzazione di figure delittuose autonome rispetto quantomeno alla prova della partecipazione (o del concorso esterno) ad una associazione avente i caratteri di cui all’art. 270 bis , in un contesto non scevro da valorizzazioni della categoria del pericolo quale fonte di legittimazione della risposta punitiva.

Ciò da un lato appare essere – nei limiti di compatibilità costituzionale – il portato di regole di esperienza maturate nel settore del contrasto al fenomeno terroristico transnazionale (data la difficoltà di ricostruzione probatoria della fattispecie associativa in contesti caratterizzati da contatti tra gli aderenti fortemente schermati e per lo più realizzati senza compresenza fisica, in un ambito territoriale sovranazionale), le cui azioni violente – ove consumate -hanno per definizione una imponente e diffusa carica di lesività, specie nei confronti di soggetti civili impreparati al conflitto, dall’altro – come si è detto – è frutto della volontà di adeguamento a fonti internazionali che in tale direzione orientano i legislatori degli stati aderenti ai consessi elaborativi. Il rilievo di dette fonti, fermi restando i limiti correlati al principio di sovranità e alla necessaria osservanza dei principi costituzionali interni, non è certo secondario nel settore qui considerato – quello del terrorismo internazionale – e ciò proprio in rapporto alla natura del fenomeno e alla necessaria (almeno in via tendenziale) omogeneità delle norme repressive nei diversi paesi coinvolti, con rischio di vanificazione degli scopi di tutela dei beni giuridici protetti (essenzialmente il diritto alla vita e alla incolumità dei singoli cittadini) in ipotesi di diversità della singola legislazione interna.

In tal senso – e ferma restando la scontata, doverosa osservanza dei principi di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice interna – va in effetti ricordato come la citata Convenzione di Varsavia del 2005 promuova (all’art. 11) la effettiva penalizzazione di numerose condotte definibili – in senso lato – come preparatorie (rispetto al compimento del singolo atto terroristico) e dunque di istigazione in forma pubblica, di addestramento (training) e di “reclutamento” (recruitment), qualificate dalla particolare finalità di terrorismo. In particolare l’articolo 6 della citata Convenzione, in tema di recruitment individua come condotta rilevante la sollecitazione/induzione (solidi) individuale, diretta alla partecipazione del soggetto contattato nella realizzazione di una offesa terroristica o alla adesione alla associazione avente tali finalità. E’ evidente che tale riferimento non può in alcun modo ritenersi decisivo al fine di individuare una corretta interpretazione logico-sistematica del contenuto della autonoma norma incriminatrice posta dal legislatore italiano, ma rappresenta un utile ingrediente della operazione di ricostruzione della voluntas legis, nel senso che segue.

  1. Per quanto rileva ai fini della decisione del presente ricorso, va pertanto realizzata – date per acquisite le linee fondanti il complesso sistema di tutela sin qui brevemente ricordato – una preliminare verifica del significato della espressione utilizzata dal legislatore nel corpo della disposizione di cui all’art. 270 quater.

Nel compiere tale operazione – in ossequio al generale principio di cui all’art. 12 c.d. preleggi (peraltro rafforzato nella sua valenza dalla materia penalistica) – va tenuta presente la collocazione “topografica” della norma incriminatrice e va altresì operata una lettura non limitata al singolo termine utilizzato (chiunque ..arruola) ma estesa all’intera proposizione (..per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo..).

La connessione delle parole (per stare nel solco tracciato dal citato articolo 12) è infatti spesso rivelatrice del reale significato del termine prescelto per descrivere una condotta, lì dove – come nel caso in esame – il dato semantico può di per sè essere polisenso.

Come è dimostrato non solo dagli atti del presente procedimento ma dalla varietà di opinioni espresse – sul tema – in dottrina, l’utilizzo del termine “arruola” non appare, nel contesto di riferimento, dei più felici, posto che lo stesso evoca – in prima approssimazione – il “fatto” dell’inserimento effettivo del soggetto arruolato in un “ruolo” militare, in modo non dissimile da quanto previsto dalla diversa fattispecie di cui all’art. 244 c.p. (atti ostili verso uno stato estero che espongono lo stato italiano al pericolo di guerra, ove è punita la condotta di chi, senza l’approvazione del governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno stato estero, in modo da esporre lo stato italiano a pericolo di guerra).

E’ evidente che la nozione di arruolamento – inserita nel corpo dell’art. 244 -implica non solo la stipulazione di un contratto ma l’inquadramento dell’arruolato in una struttura di tipo militare in senso effettivo (così Sez. 6^ n. 36776 del 1.7.2003, rv 226050).

Depone in tale direzione interpretativa lo stesso presupposto dell’assenza della ‘approvazione del governo”, così come la condizione di punibilità rappresentata dal “pericolo di una guerra”, il che sottende scenari (si spera superati) di potenziale belligeranza tra eserciti regolari (la norma è figlia dell’epoca di redazione).

Ma, ed è questo il punto, nessuna similitudine di contesto e di finalità è dato riscontrare tra le due norme qui in rilevo (art. 244 e art. 270 quater) il che autorizza – in effetti – a ritenere che, ferma restando l’identità lessicale, il termine sia stato utilizzato dal legislatore del 2005 in senso parzialmente diverso.

Il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo (e ancor di più il sabotaggio) non implica nè presuppone l’esistenza di un regolare esercito, quanto di formazioni organizzate di tipo paramilitare, anche con ristretto numero di aderenti, a composizione mobile, necessariamente idonee alla mimetizzazione, fermo restando che nei casi di maggior gravita – come quello oggetto del procedimento qui scrutinato – possono riscontrarsi forme organizzative dotate di tendenziale stabilità e rilevanza locale che ne accentuano il carattere militare. Nessun riferimento all’ingresso formale in formazioni militari, del resto, è dato rinvenire nella citata fonte sovranazionale (fermo restando il valore solo orientativo del richiamo), che – di contro – valorizza l’aspetto finalistico della partecipazione al (previsto) atto di terrorismo o la stimolazione all’ingresso nel gruppo organizzato avente tali finalità.

Appare dunque necessario – ad avviso del Collegio – esplorare la nozione di arruolamento di cui all’art. 270 quater calando l’utilizzo del termine nel contesto espressivo globale della disposizione, tenendo presente la forte valorizzazione normativa dello scopo dell’atto qualificato come illecito.

In tal senso, pur non potendosi certo equiparare il termine “arruolamento”, scelto dal legislatore, al diverso e più ampio concetto di “reclutamento”, è necessario affermare che il significato è qui equiparabile alla nozione di ingaggio, intesa come raggiungimento di un “serio accordo” tra soggetto che propone (il compimento, in forma organizzata, di più atti di violenza ovvero di sabotaggio con finalità di terrorismo) e soggetto che aderisce.

3.1 Ritiene, infatti, il collegio che tale conclusione sia imposta da più considerazioni, esprimibili nel modo che segue :

  1. a) la differenza obiettiva tra i concetti di reclutamento e arruolamento è presente nella legislazione italiana in virtù dell’avvenuta ratifica, con 12 maggio 1995, n. 210, della convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite a New York il 4 dicembre 1989. Detta convenzione internazionale mira a reprimere il fenomeno dell’ingaggio, in formazioni militari o paramilitari, caratterizzato non già da adesione ideologica a scopi latamente politici o religiosi quanto dal vantaggio economico che ne deriva per il soggetto reclutato, in presenza delle condizioni e finalità dell’azione descritte nel testo dell’atto.

Ora, all’art. 4 della legge di ratifica si punisce espressamente la condotta del “reclutare”, intesa – come precisato da Sez. 6^ n. 36776 del 2003 – come comprensiva di ogni attività di reperimento di persone disponibili ad operazioni militari mercenarie e di raggiungimento di un accordo, finalizzato al loro impiego. Trattasi pertanto di condotta inclusiva – sotto il profilo del rilievo penale – della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato.

  1. b) la scelta, da parte del legislatore nel 2005, del termine “arruola” (in luogo di recluta) non può pertanto ritenersi priva di valore, nel senso che è da ritenersi espressiva – fermo restando quanto detto in precedenza – della volontà di “fissare” il momento consumativo del reato in una fase più avanzata rispetto a quella della mera proposta (da parte del reclutante) o trattativa, anche in ragione del particolare settore in cui è collocata la norma (la finalità di terrorismo) e del relativo rischio di confondere l’attività di mero proselitismo ideologico con il fatto tipico di reato;
  2. c) ciò, tuttavia, non consente di affermare che la consumazione del delitto di arruolamento debba essere collocata “oltre” rispetto al momento del raggiungimento del “serio accordo” tra arruolante e arruolato, ove l’accordo risulti qualificato dalla “doppia finalità” prevista dalla norma incriminatrice (compimento di atti di violenza o sabotaggio con finalità di terrorismo) e ciò in virtù del fatto che, oltre a quanto già detto, è il raggiungimento dell’accordo (nei suddetti termini) ad integrare il disvalore del fatto ed a porsi come momento di raggiungimento dell’elevato pericolo (in tesi presunto) cui è correlata la punibilità.

In effetti, dò che la norma intende reprimere è l’accrescimento umano (anche un di un solo soggetto) della potenzialità di offesa del sottostante gruppo (militare, paramilitare, semplice cellula operativa) avente la finalità “specializzante” di cui all’art. 270 sexies – in ragione del particolare valore dei plurimi beni giuridici protetti – e tale effetto si raggiunge in virtù della conclusione dell’accordo, al di là degli eventi successivi, che non appaiono presi in considerazione da tale segmento del più ampio sistema di tutela.

E’ stato, tra l’altro, evidenziato che la mancata punibilità nella previsione originaria della norma (oggi significativamente emendata con il d.l. del febbraio 2015) dell’arruolato, ben può essere dipesa dalla considerazione (lì dove gli atti programmati siano stati dal medesimo realizzati con inserimento effettivo nella struttura operativa) della sua possibile punibilità ai sensi dell’art. 270-bis (Sez. V n. 39430 del 2.10.2008, rv 241742) in una logica legislativa di estensione dell’area di punibilità incentrata, all’epoca, sulla condotta “concludente” dell’arruolante.

Del resto, l’assetto che qui si ricostruisce – con identificazione del momento consumativo del reato in quello del serio accordo – appare rafforzato, sul piano logico, proprio dalla recente introduzione della punibilità dell’arruolato, peraltro prevista con pena inferiore rispetto al massimo edittale stabilito per il partecipe, posto che viene valorizzato il semplice effetto di incremento della potenzialità di offesa del gruppo.

Ciò che rileva, a parere del collegio, è che l’accordo di arruolamento abbia non solo il carattere della serietà – intesa da un lato come autorevolezza della proposta (il proponente deve avere la concreta possibilità di inserire l’aspirante nella struttura operativa una volta concluso l’ingaggio) e dall’altro come fermezza della volontà di adesione al progetto – ma soprattutto sia caratterizzato in modo evidente dalla doppia finalizzazione prevista dalla norma (con relativa pienezza dell’elemento psicologico) il che giustifica la sua incriminazione, per quanto sinora detto.

Una volta raggiunto tale assetto – relativo alla consumazione del reato – non può, peraltro, escludersi in via generalizzante e dogmatica l’ipotesi del tentativo punibile in rapporto a condotte poste in essere dal soggetto proponente e tese, con i caratteri di cui all’art. 56 c.p., (ed in presenza dei descritti presupposti di contesto e finalistici) al raggiungimento del suddetto accordo. Non è infatti la particolare natura del reato (di pericolo) ad impedire – di per sè -l’applicazione della generale previsione estensiva di cui all’art. 56 c.p., quanto la struttura della singola fattispecie (il che rende non pertinenti i richiami esposti dal Tribunale ad arresti di questa corte relativi a reato del tutto diverso) e la possibilità o meno di identificare in concreto una “progressione della esposizione a pericolo” dei beni giuridici protetti, come ritenuto – pur nell’ovvio contrasto di opinioni – da autorevole dottrina.

Nel caso in esame, essendo il reato consumato incentrato su un evento (per quanto detto, il serio accordo) altamente pericoloso, è da ritenersi tollerabile ed identificabile in concreto (ferme restando le complessità probatorie) una progressione (nell’attività tesa alla promozione e realizzazione dell’accordo) tale da integrare la soglia di punibilità della condotta, con l’ovvia necessità di distinguere i caratteri del tentativo punibile rispetto alla attività di mero proselitismo o libera manifestazione del pensiero (circa tali aspetti Sez. 1^ n. 4433 del 6.11.2013, dep. il 30.1.2014) e con l’altrettanto avvertita necessità di confrontarsi con le scelte di incriminazione operate dal legislatore e relative a fattispecie analoghe (art. 302 c.p., art. 414 c.p.).

Va evidenziato, sul punto, che la recente tendenza normativa – pur non ricadente sul caso in esame ratione temporis – appare essere proprio quella della tipizzazione (con tutta la complessità interpretativa che il tema pone) di ipotesi di tentativo punibile, lì dove – ad esempio – si considerino le condotte descritte all’art. 270 quater 1, ed in particolare quella del propagandare viaggi in territorio estero finalizzati al compimento di condotte con finalità di terrorismo.

  1. Tornando al caso in esame, va dunque constatato che il tema posto in diritto -sin dalla fase iniziale – non è stato trattato, in sede di merito, in modo rispondente alle linee interpretative sin qui tracciate.

La criticità maggiore – ad avviso del Collegio – sta anzitutto nel valutare, come quaestio facti se, ed in che termini, sia intervenuto tra E.E. (come concorrente nel reato) e B.A.M. un “serio accordo” di arruolamento, perchè ciò porterebbe, in diritto, alla conclusione della consumazione del reato e non a quella del tentativo punibile (ipotesi ritenuta in sede genetica dal GIP).

L’ipotesi del tentativo punibile, ove si ritenga non raggiunto alcun accordo, non è peraltro priva di validità – in diritto – se ed in quanto si ritengano sussistenti, nella fase che ha caratterizzato l’offerta e i plurimi contatti tra i due, le condizioni prima descritte di applicabilità dell’art. 56. Tale aspetto, peraltro, può essere oggetto di rivalutazione piena in sede di giudizio di rinvio, atteso che sin dalla fase iniziale vi è stato ampio contraddittorio e introduzione nel procedimento di tutti gli elementi in fatto tesi a rappresentare le condotte tenute dai vari soggetti coinvolti, sì da rendere possibile qualsiasi qualificazione giuridica, una volta assegnato il valore probatorio ad ogni singolo elemento informativo (sul tema della possibile diversa qualificazione giuridica del fatto in sede di riesame Sez. 1^ n. 3791 del 30.9.1993, rv 196583).

4.1 Ciò posto, l’analisi condotta dal Tribunale risente – in tutta evidenza – di un inquadramento dogmatico non condivisibile, posto che da lato si posiziona la consumazione del reato in una fase successiva a quella dell’accordo (il che, si ripete, non è da ritenersi conforme al contenuto precettivo) e dall’altro si ritiene, in linea tendenziale, inapplicabile la previsione di cui all’art. 56 c.p. (che, pur posizionando la consumazione nel momento del serio accordo resta, come si è detto, ipotizzabile).

Tale inquadramento ha determinato – al di là del vizio in diritto – una successiva elaborazione del fatto in termini eccessivamente sintetici, nel cui ambito i profili motivazionali in senso proprio (attribuzione di valore ai dati informativi ed esplicazione dei criteri logici tesi a sorreggere la decisione) appaiono sostituiti, in alcuni punti, da mere espressioni del risultato valutativo.

In tal senso, risultano fondate le doglianze esposte dal ricorrente in punto di “incompletezza” della valutazione, posto che il metodo seguito non consente di comprendere in che misura alcuni dati – effettivamente rilevanti ed esposti nel titolo genetico – siano stati realmente oggetto di considerazione (quanto al dovere di completezza motivazionale, tra le molte Sez. 4^, n. 14732 del 1.3.2011, Molinario, rv 250133 nonchè Sez. 1^, n. 25117 del 14.7.2006, Stojanovic, rv 234167).

In particolare, va affermato che la valutazione della condotta tenuta da E.E., nel contatto diretto con il B.A., va apprezzata – secondo le linee della imputazione – come possibile apporto concorsuale (art. 110 c.p.) alla consumazione del reato e dunque in modo congiunto con i dati informativi che riguardano, nel loro complesso, le condotte di E.A. (costui, non solo è in contatto con il nipote E. ma lo è stato con il già arruolato E.A. e si spinge a raggiungere l’Italia in coincidenza con l’intensificazione dei contatti tra E.E. e B.A., come emerge dal titolo genetico). Circa tale necessità il Tribunale bresciano – pur di certo consapevole della contestazione concorsuale – non sviluppa in modo adeguato il tema e tende a comprimere la valutazione globale dei dati, specie sul tema della “idoneità” di E.E. (e di E.A.) a porsi quali reali intermediari tra le aspirazioni di B.A. (da costui a più riprese manifestate) e il raggiungimento dei fronti di guerra in atto.

Tale segmento del fatto va, pertanto, rivalutato – dovendosi tener conto di tutti i dati probatori esistenti in atti, ivi compresi, nella parte rilevante, quelli relativi alla esistenza di contatti tra E.A. e A.A., non certo neutralizzati dalla esistenza di un giudicato cautelare, lì dove si controverta sull’arruolamento di un soggetto diverso e sul tema delle attitudini dei potenziali arruolanti – in una con la valutazione circa l’esistenza o meno (allo stato degli atti e degli indizi) della gravita indiziaria sull’accordo di arruolamento oggetto di scrutinio.

Il tema è tipica quaestio facti, il cui esame – secondo le linee di metodo sin qui svolte – va rimesso in modo integrale al giudice del rinvio, che dovrà successivamente attenersi ai principi di diritto esposti in precedenza.

  1. Il ricorso va – di contro – dichiarato inammissibile nella parte relativa a H.E.M., sia per manifesta infondatezza che per carenza di interesse.

Non può, infatti, ritenersi abnorme il provvedimento con cui il Tribunale del Riesame, nel rilevare l’incompetenza per territorio del GIP e nell’applicare la previsione di legge di cui all’art. 27 c.p.p., operi al contempo una valutazione sulla ricorrenza di tutti i presupposti di legge per il “mantenimento” della misura cautelare in atto, dotata di efficacia provvisoria.

Come è noto, la categoria concettuale della abnormità nasce per porre rimedio a comportamenti procedimentali posti in essere dall’organo giudicante da cui derivano atti non altrimenti impugnabili – in virtù del principio di tassatività delle sanzioni processuali e dei relativi rimedi – e al contempo espressivi, in concreto, di uno “sviamento” della funzione giurisdizionale, non più rispondente al modello previsto dalla legge.

La lunga e articolata elaborazione giurisprudenziale sul tema (a partire dalle decisioni elaborate nella vigenza del codice del 1930, tra cui sent. 12.12.’81, ove si precisava che risulta abnorme il provvedimento che per la singolarità e stranezza del suo contenuto sta al di fuori non solo delle norme legislative ma dell’intero ordinamento processuale, tanto da doversi considerare imprevisto e imprevedibile dal legislatore) è stata efficacemente sintetizzata dalla decisione emessa dalle Sezioni Unite n. 25957 del 26.3.2009, che questo Collegio condivide, in cui si è posta in rilievo, a fini di razionalizzazione delle diverse ipotesi e di effettiva percezione della diversità tra atto abnorme e atto illegittimo, la differenza esistente tra abnormità strutturale e abnormità funzionale dell’atto emesso, con classificazione delle relative ipotesi.

L’ abnormità strutturale va infatti limitata al caso di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall’ordinamento processuale (carenza di potere in astratto) ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale, nel senso di esercizio di un potere previsto dall’ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perchè al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto).

L’abnormità funzionale, è invece, da inviduarsi nel caso di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo e va limitata all’ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo.

Dunque ciò che rileva – al fine di qualificare un atto emesso dal giudice come abnorme – risulta essere:

  1. a) il confronto tra l’atto posto in essere dal giudice ed il modello legale di riferimento, nel senso che lì dove l’atto sia astrattamente “espressivo” di un potere conferito dalla legge, pur se in tesi erroneamente applicato, non può essere l’atto stesso qualificato abnorme se non nel caso in cui la copertura del modello legale risulti, in realtà, solo apparente, essendo stato emesso al di fuori dei casi consentiti e al di là di ogni ragionevole limite;
  2. b) l’analisi delle conseguenze dell’atto, da qualificarsi abnorme solo ove imponga il compimento di una ulteriore attività viziata e dunque ponga in pericolo l’equilibrio funzionale del procedimento e la stessa nozione di processo come “serie ordinata” di atti tendenti alla stabilità della sua conclusione.

5.1 Nessuna di dette ipotesi è rinvenibile nel caso in esame, al di là della evidente perenzione dell’interesse da parte del Pubblico Ministero ad ottenere un provvedimento di annullamento di una decisione che, proprio in virtù della serie procedimentale di cui all’art. 27 c.p.p., non ha più alcuna efficacia regolatrice sullo status libertatis del destinatario (essendo stato emesso nuovo e autonomo titolo cautelare dal GIP di Torino, come segnalato e documentato dalla difesa).

Va detto, in sintesi, che – quanto al preteso vizio – il Collegio, pur consapevole della esistenza di arresti di segno diverso, condivide le linee di recente ribadite da Sez. 6^ n. 23365 del 6.5.2014, rv 260820, secondo cui è preciso dovere del Tribunale in sede di riesame (data la compressione della libertà in atto) quello di valutare, lì dove si rilevi il vizio di incompetenza, l’esistenza di tutte le condizioni di applicabilità della misura cautelare, pur trattandosi di misura dagli effetti precari e destinata ad essere sostituita dal nuovo titolo. Una volta riconosciuta l’esistenza del potere è evidente che lo stesso si esplica nella sua pienezza e concerne, pertanto, anche l’adeguatezza della misura, con assenza di profili di abnormità della decisione emessa.

Il diverso orientamento (espresso, tra le altre, da Sez. 6^ n. 50078 del 28.11.2014, rv 261539 e da Sez. 6^ n. 6240 del 17.1.2012, rv 252420) non appare condivisibile perchè si basa, ad avviso del Collegio, su una irrazionale “assimetria” tra i poteri del giudice delle indagini preliminari (che dovrebbe valutare in ogni caso la ricorrenza dei presupposti e l’urgenza di soddisfare le esigenze cautelari anche quando si ritiene incompetente) e quelli del Tribunale del Riesame (organo di impugnazione) cui sarebbe inibita, una volta statuita l’incompetenza, alcuna valutazione di merito (dovendosi limitare a trasmettere gli atti al GIP ritenuto competente).

Ciò, al di là del rilievo dei valori coinvolti, appare dissonante con i principi generali in tema di impugnazione, evidenziati peraltro dalla pronunzia delle Sezioni Unite emessa sull’argomento in data 25.10.1994 (rv 199393). In tale arresto si è infatti affermato – in modo del tutto convincente – che .. esiste una regola fondamentale e costante del nostro ordinamento processuale, inserita nel quadro complessivo delle garanzie giurisdizionali, ed espressione, essa stessa, di un’illuminata tradizione, cioè quella che riconosce al giudice dell’impugnazione il potere di sostituire, a tutti gli effetti, la propria decisione a quella impugnata: tale potere sostitutivo è conseguente al necessario riconoscimento al giudice dell’impugnazione degli stessi potenziali poteri dispositivi esercitabili dal giudice che ha emesso il provvedimento. Aderendo a tale orientamento, deriva la certa sussistenza del potere di sostituzione della misura in atto – ferma restando l’efficacia temporalmente ristretta della decisione – da parte del Tribunale del Riesame, nell’ambito di una declaratoria di incompetenza del GIP con contestuale attivazione della regola normativa di cui all’art. 27 c.p.p..

 

P.Q.M.

 

Annulla l’ordinanza impugnata nei confronti di E.E. e rinvia per nuovo esame, ordinando l’integrale trasmissione degli atti, al Tribunale di Brescia, sezione per il riesame delle misure coercitive;

dichiara inammissibile il ricorso nei confronti di H.E.M..

Così deciso in Roma, il 9 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2015