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Diritto Penale. Misure cautelari dopo la legge n. 47 del 2015: obbligo di motivazione della inidoneità degli arresti domiciliari.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Misure cautelari dopo la legge n. 47 del 2015: obbligo di motivazione della inidoneità degli arresti domiciliari.

La recente modifica al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali è volta a scongiurare che il supremo valore della inviolabilità della libertà personale possa essere messo in crisi dalla applicazione di misure coercitive che, sebbene abbiano i caratteri della strumentalità e della temporaneità, intervengono comunque a limitare la persona nella sua massima esplicazione. Il legislatore della riforma tende, infatti, ad evitare la massima privazione della libertà personale, conferendo alla misura della custodia cautelare in carcere valore di extrema ratio nella scelta che il giudice deve compiere in presenza delle condizioni e delle esigenze cautelari previste espressamente dal codice di rito. Di talché, a seguito della legge n. 47 del 2015, l’ordinanza con la quale il giudice applica la misura cautelare deve necessariamente contenere non solo la ”esposizione”, ma altresì la personale e “autonoma valutazione” dell’organo giudicante in ordine alle specifiche esigenze cautelari e agli indizi che giustificano in concreto la misura disposta. Laddove, invece, sussistano i presupposti per l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere, la legge richiede che vengano esposte le concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. non possano essere soddisfatte con altre misure. Nel caso di specie il nuovo comma 3 bis di cui all’art. 275 c.p.p. prevede che “nel disporre la custodia cautelare in carcere il giudice deve indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all’articolo 275-bis, comma 1”. Tali procedure di controllo si sostanziano nell’utilizzo di mezzi elettronici o di altri strumenti tecnici, quali il c.d. braccialetto elettronico, e consentono di evitare l’applicazione della custodia cautelare in carcere, salvo che l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e degli strumenti anzidetti. A parere della Terza sezione penale della Corte di Cassazione, i giudici del riesame non hanno assolto all’obbligo motivazionale, indicato dalla norma in esame, limitandosi solo a chiarire le ragioni della inadeguatezza degli arresti domiciliari “semplici” a salvaguardare l’esigenza cautelare, senza argomentare quindi, in maniera specifica, in ordine alla inidoneità in concreto della misura degli arresti domiciliari unitamente al c.d. braccialetto elettronico. Solo relativamente a questa censura, la Suprema Corte ha affermato la fondatezza del ricorso, avendo i giudici del tribunale della libertà ben espresso quali fossero le esigenze da soddisfare mediante l’applicazione delle misure all’uopo previste. Il legislatore della riforma ha previsto,infatti, che in ordine alle esigenze cautelari “le situazioni di concreto ed attuale pericolo, anche in relazione alla personalità dell’imputato, non possono essere desunte esclusivamente dalla gravità del titolo di reato per cui si procede”. Ebbene, i giudici del tribunale della libertà non si sono limitati a valorizzare la gravità del reato (nella fattispecie il reato di cui all’art. 73, comma 1 bis, D.P.R. n. 309 del 1990), ma hanno posto l’accento sui plurimi precedenti penali del ricorrente, nonché sui recenti procedimenti pendenti a carico dello stesso, i quali assumono un particolare significato in relazione al concreto ed attuale pericolo di recidiva, e quindi anche in ordine ad una complessiva valutazione della personalità del reo. Quanto, invece, al giudizio di inadeguatezza di ogni altra misura, con particolare riferimento a quella degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico, la motivazione dei giudici del riesame non appare, ad avviso della Suprema Corte, adeguata rispetto alla questione posta.