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Diritto penale – La novella dell’art 309 c.p.p. e la prassi del deposito disgiunto.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

 Diritto penaleLa novella dell’art 309 c.p.p. e la prassi del deposito disgiunto.

La I sez. penale della Corte di Cassazione è di recente intervenuta, in materia di misure cautelari ed in particolare nell’ambito del procedimento di riesame, per affermare la non applicabilità del comma 10 dell’art. 309 c.p.p., così come novellato dalla legge 47/2015, e quindi del termine ivi previsto, a tutte quelle decisioni emesse, anche se con il deposito del solo dispositivo e non anche della motivazione, prima dell’8 maggio 2015, data di entrata in vigore della disposizione in questione.

Nel caso di specie, il 27 aprile del 2015 era stato depositato il dispositivo dell’ordinanza decisoria del riesame, mentre la motivazione era stata depositata soltanto successivamente, il 26 giugno di quello stesso anno; nelle more della stesura della motivazione era, tuttavia, intervenuta, l’8 maggio del 2015, la novella del comma 10 dell’art 309 c.p.p., la quale prevedeva un termine perentorio di 30 giorni per il deposito dell’ordinanza di decisione del riesame a pena di inefficacia della misura cautelare oggetto di conferma.

La Corte ha affermato la non applicabilità di tale termine in quanto ci si ritrovava, nel caso, di fronte ad un’ordinanza che, di regola, è atto unitario e che quindi non prefigura una scissione tra parte dispositiva e parte motivazionale. Non è possibile perciò riconoscere un’autonomia strutturale della motivazione rispetto al dispositivo, e ciò influisce sull’individuazione della norma regolatrice ratione temporis che si identifica con quella vigente al momento dell’emissione della decisione e quindi dell’ordinanza stessa, anche se la medesima viene emessa, provvisoriamente, attraverso il deposito del solo dispositivo; non può, infatti, la sola prassi della scissione tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione dell’ordinanza individuare un’autonomia del momento meramente esplicativo della motivazione rispetto a quello della decisione, con la conseguenza che, al momento del deposito del dispositivo, lo stesso procedimento di riesame debba ritenersi concluso, con l’esclusione dell’applicazione dell’ambito attuativo della nuova previsione di legge all’attività motivazionale, se non ancora realizzata.

Infine, la Suprema Corte, nell’andare a sottolineare come tale nuova previsione andasse ad introdurre una sanzione processuale, ha rimarcato, a suffragio della propria tesi, come questa non potesse realizzare i propri effetti in riferimento a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti all’entrata in vigore della disposizione in questione.

Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 14-10-2015) 11-02-2016, n. 5774

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORTESE Arturo – Presidente –

Dott. BONITO Francesco M.S. – Consigliere –

Dott. SANDRINI Enrico Giuseppe – Consigliere –

Dott. MAGI Raffaello – rel. Consigliere –

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.V. N. IL (OMISSIS);

R.S. N. IL (OMISSIS);

R.V.S. N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 1234/2015 TRIB. LIBERTA’ di CATANIA, del 06/08/2015;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. RAFFAELLO MAGI;

lette/sentite le conclusioni del PG Dott. Gaeta Pietro, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi;

uditi i difensori avv.ti Caruso Salvatore e Cuscunà Luigi Francesco difensore dei ricorrenti che hanno chiesto l’accoglimento de ricorsi.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Il Tribunale del Riesame di Catania, con decisione emessa ai sensi dell’art. 310 c.p.p.. in data 6 agosto 2015, ha rigettato l’appello proposto da M.V., R.S. e R. V.S. avverso la decisione emessa dal GIP del medesimo ufficio giudiziario in data 10 luglio 2015.

Il tema della decisione è rappresentato dalle modalità di applicazione della nuova disposizione normativa introdotta dalla L. 16 aprile 2015, n. 47, art. 11 (in G.U. n. 94 del 23.4.2015) al comma 5.

Con tale disposizione è stato stabilito – con sostituzione del previgente art. 309, comma 10 – che nell’ambito del procedimento incidentale di riesame l’ordinanza decisoria “deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi il giudice può disporre per il deposito un termine più lungo, comunque non eccedente il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione”.

La inosservanza del suddetto termine, relativo al deposito della motivazione dell’ordinanza, è presidiata dalla perdita di efficacia della ordinanza oggetto della procedura di impugnazione, con divieto di sua rinnovazione, salva la ricorrenza di eccezionali esigenze cautelari, da motivarsi in modo specifico (ciò sempre ai sensi del novellato art. 309, comma 10, primo periodo).

In fatto, la vicenda portata all’attenzione del Tribunale concerne la prospettata perdita di efficacia del titolo cautelare (ai sensi dell’art. 306 c.p.p., con richiesta rivolta al giudice del procedimento principale e da tale autorità disattesa) emesso nei confronti degli attuali ricorrenti e sottoposto ad impugnazione ai sensi dell’art. 309 c.p.p. con istanza depositata in data antecedente rispetto a quella (8 maggio 2015) in cui è entrata in vigore la nuova disciplina. In particolare, la motivazione della ordinanza emessa dal Tribunale in sede di riesame il 27 aprile del 2015 – dunque in data antecedente la vigenza della nuova disposizione – non è stata depositata nei trenta giorni successivi alla entrata in vigore della legge di riforma (8 giugno 2015) nè risulta emesso un provvedimento di proroga (la motivazione è stata depositata il 26 giugno 2015).

A fronte di tale sequenza, il Tribunale – investito della doglianza – afferma, in sintesi, che la emissione del dispositivo dell’ordinanza di riesame in data 27 aprile 2015 non rendeva possibile l’emissione di alcun provvedimento di proroga del termine di deposito dei motivi (in tale lettura necessariamente contestuale al dispositivo, derivando da un giudizio prognostico correlato alla constatazione della complessità) e pertanto ciò dimostrerebbe che il Tribunale non era tenuto a rispettare il sopravvenuto termine-base dei trenta giorni introdotto dalla L. n. 47, entrata in vigore in data 8 maggio 2015.

  1. Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione – a mezzo del comune difensore – M.V., R.S. e R.V.S., deducendo violazione di legge e vizio di motivazione.

Viene riproposta nel ricorso la diversa interpretazione dei dati normativi incidenti sulla decisione.

Essendo pacifico che la decisione del riesame – ossia l’emissione del dispositivo – è avvenuta, nel caso in esame, prima della entrata in vigore della novella, la difesa dei ricorrenti tende a rappresentare che, non essendo stata depositata la motivazione nei trenta giorni successivi alla data dell’otto maggio 2015, il titolo cautelare allora impugnato avrebbe perso efficacia in virtù della disposizione prima citata.

Si sostiene, sul tema, che la nuova norma andrebbe a regolamentare – in virtù del principio generale tempus regit actum – i rapporti ancora pendenti alla data della sua entrata in vigore, e pertanto lì dove l’ordinanza di riesame risulti ancora priva di motivazione alla data dell’otto maggio da tale momento andrebbe”.

calcolato il nuovo termine, con perdita di efficacia del titolo cautelare alla data dell’otto giugno 2015.

La decisione reiettiva viene pertanto contestata sia nel suo fondamento giuridico che in quello logico, posto che nulla avrebbe vietato, a far data dall’otto maggio 2015, l’emissione del provvedimento di proroga del termine, da ritenersi non necessariamente correlato alla emissione del dispositivo ma possibile anche – con separato provvedimento – in un momento posteriore purchè antecedente alla scadenza del termine “ordinario” di giorni trenta.

Si evidenzia che l’interpretazione proposta risulta la più aderente ai principi ispiratori della riforma e si insiste per l’accoglimento dei ricorsi.

 

Motivi della decisione

 

  1. I ricorsi risultano infondati e vanno pertanto rigettati, per le ragioni che seguono.
  2. Trattandosi, nel caso in esame, di questione puramente interpretativa di norme giuridiche, non può ritenersi esaminabile la denunzia di un vizio di motivazione del provvedimento impugnato, posto che trattasi di una doglianza, pur formulata, non rispondente ai contenuti dell’art. 606 c.p.p..

Come è stato più volte evidenziato nella presente sede di legittimità (da ultimo Sez. 1, n. 16372 del 20.3.2015, rv 263326) il vizio di motivazione non è denunziabile con riferimento a questioni di diritto, poichè queste se sono fondate e disattese dal giudice di merito (motivatamente o meno) danno luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge (art. 606, comma 1, lett. b) mentre se sono infondate il loro mancato esame non determina alcun vizio di legittimità della pronunzia.

Ulteriore conseguenza di ciò è che questa Corte, nell’esaminare la sola denunzia di violazione (o falsa applicazione) delle norme coinvolte nella operazione interpretativa non è vincolata, nel percorso di ricostruzione della fattispecie in diritto, alle argomentazioni espresse nel provvedimento impugnato ma può liberamente rielaborare il tema dedotto.

2.1 Ciò posto, pur dovendosi disattendere il percorso argomentativo seguito dal Tribunale, il risultato resta quello espresso in apertura.

Il Collegio, sul tema, non ignora l’esistenza di una interpretazione favorevole alla opzione seguita dai ricorrenti, di recente espressa da Sez. 5, n. 40342 del 17.9.2015 . In tale decisione si è osservato – in caso del tutto analogo (posto che la decisione del riesame era avvenuta in data 7 maggio 2015) – che l’attività regolamentata dalla nuova previsione normativa – la stesura della motivazione – era pienamente in corso al momento della entrata in vigore della legge (8 maggio 2015) e pertanto era da ritenersi soggetta alla nuova disciplina (ivi compresa la rafforzata previsione di inefficacia del titolo cautelare) proprio in rapporto alla sua “autonomia” e in ossequio al generale principio tempus regit actum.

Si è anche ritenuta, in tal sede, possibile l’emissione di un provvedimento di proroga dei termini in epoca successiva rispetto a quella di emissione del dispositivo.

La prima di tale affermazioni non è da ritenersi condivisibile, a parere di questo Collegio, per le ragioni che seguono.

2.2 Va, in premessa, affermato che la disposizione contenuta nell’art. 11 preleggi (la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo) pur non avendo valore di principio costituzionale – se non per le norme incriminatrici – ha tuttavia valore di principio generale dell’ordinamento giuridico e quindi opera come fondamentale criterio di interpretazione delle norme, in mancanza di una espressa disciplina transitoria posta con atto di pari rango legislativo (tra le molte, Sez. U. n. 49783 del 24.9.2009).

Si suole affermare in proposito che ciascun “fatto” va tendenzialmente assoggettato alla normativa del tempo in cui esso si verifica (tempus regit actum) e che in campo processuale – attività caratterizzata per sua natura da una serie concatenata di atti – le nuove norme tendono a divenire applicabili, in virtù di tale regola generale, nei limiti in cui l’attività da realizzarsi possa ritenersi “regolata” dalla disciplina innovativa.

Ciò in rapporto al risvolto “conservativo” insito in detto principio, tale da conferire stabilità di effetti agli “atti” compiuti in conformità alle norme anteriormente vigenti (al momento della loro venuta in essere) il cui modello legale di riferimento resta rappresentato dalla legge oggetto di successiva modifica.

Il campo processual-penalistico è stato, sul tema, attraversato – da sempre – da forti tensioni, posta l’incidenza della legge processuale sulle modalità di svolgimento di uno strumento giuridico teso alla ricostruzione di un fatto da cui può derivare l’affermazione di penale responsabilità del singolo, con correlato trattamento sanzionatorio.

Da qui la tendenza – specie in dottrina – a ritenere alcune norme processuali penali, specie in tema di limiti o divieti probatori ( ma anche sul fronte del trattamento cautelare) dotate di una natura giuridica sui generis tale da comportare affinità di regolamentazione con quelle di diritto penale sostanziale, caratterizzate – queste ultime – dalla nota regola della retroattività in bonam partem sino alla decisione irrevocabile (art. 2 c.p., comma 4). Da tale atteggiamento interpretativo deriverebbe – in tesi – la possibilità di ritenere affetto un determinato atto processuale da un contrasto “sopravvenuto” con la nuova disciplina regolatrice, tale da determinarne l’invalidità o la perdita di efficacia del medesimo.

La linea interpretativa seguita, nel corso del tempo, da questa Corte di legittimità ha – sul tema – escluso la possibilità di aderire ad una siffatta visione parasostanziale delle norme processuali, tale da incrinare (salva espressa disciplina transitoria) la regola del tempus regit actum (principio riaffermato di recente da Sez. U n. 44895 del 17.7.2014 rv 260927, in tema cautelare da Sez. U. n. 27919 del 31.3.2011, rv 250169, nonchè in tema di esecuzione da Sez. U n. 24561 del 30.5.2006 rv 233976), ma al contempo ha imposto una attenta ricognizione del contenuto delle singole innovazioni, sì da rapportarsi in modo ragionevole alla ricostruzione della disciplina regolatrice della specifica attività processuale in sè considerata (actum) nei casi di successione di norme nel tempo.

Il procedimento penale è infatti caratterizzato – per sua natura – non solo dalla correlazione tra più attività poste in essere da soggetti distinti, ma dalla compresenza di norme regolatrici aventi contenuto e finalità molto diverse tra di loro, la cui classificazione non appare inutile a fini di individuazione del limite di resistenza alla novità normativa, specie se sfavorevole.

Il divieto di far ricorso ad una particolare tipologia di prova è, ad esempio, norma dal valore ben diverso rispetto a quella che regolamenta la tempistica di una impugnazione, così come la modifica di un presupposto applicativo di una misura restrittiva della libertà personale incide sui diritti della persona sottoposta al procedimento in maniera ben più consistente rispetto alla introduzione di una diversa regolamentazione di una facoltà interna al procedimento incidentale di impugnazione. Si è in tal senso ritenuto – anche facendo riferimento alla ultrattività della disciplina vigente all’atto della emissione del titolo genetico (actum) – che l’entrata in vigore di una disciplina sopravvenuta peggiorativa del trattamento cautelare (D.L. n. 11 del 2009) non può comportare la sostituzione della misura in atto per il solo mutamento del quadro normativo (Sez. U n. 27919 del 31.3.2011, rv 250195) così come, in diversa occasione, si è affermato (Sez. U n. 10086 del 13.7.1998, rv 211192) che in tema di interpretazione della disciplina transitoria dettata dal legislatore in occasione di modifica del procedimento di acquisizione e valutazione della prova il criterio tempus regit actum, anzichè astrattamente recepito in modo schematico e indifferenziato andasse adeguato alla diversa tipologia degli atti processuali oggetto di modifica, con conseguente rilievo in sede di legittimità della nuova regolamentazione, pur apportata da norma processuale, data la natura plurifasica e trasversaledel fenomeno probatorio.

Escludendo fuorvianti generalizzazioni, resta essenziale, pertanto, l’analisi dei contenuti specifici dell’intervento legislativo, al fine di stabilire – anche nell’ambito della medesima legge di novellazione – quale sia l’attività processuale evocata e considerata dalla singola disposizione e in che misura la stessa risulti “sensibile” al mutamento del quadro normativo di riferimento.

2.3 In tal senso, nell’esaminare i contenuti del poliedrico intervento di novellazione apportato dal legislatore con la L. n. 47 del 2015 sul tema delle misure cautelari personali non può certo risolversi il tema qui trattato mediante un generico riferimento al principio di perdurante validità degli atti processuali compiuti secondo la legge vigente al momento della loro emissione (tempus regit actum) ma va apprezzato il contenuto di ogni singola disposizione e rapportata ogni innovazione alle sue potenziali ricadute sui procedimenti in atto e sui sottostanti diritti o facoltà.

La legge, priva di disposizioni transitorie, contiene infatti sia modifiche strutturali (diversa fisionomia delle condizioni di applicabilità delle misure, rafforzamento del principio di adeguatezza ed altro) che previsioni relative alla articolazione argomentativa del titolo genetico o ancora alle modalità realizzative del contraddittorio in sede di riesame o alla tempistica di trattazione dell’udienza e di deposito della relativa decisione.

Si tratta di disposizioni eterogenee che se da un lato risultano accomunate dal ‘settorè di intervento dall’altro realizzano in modo autonomo una incidenza innovativa su specifici aspetti correlati al “trattamento” in quanto tale (la diversa connotazione delle esigenze cautelari, ad esempio), ai contenuti motivazionali del titolo genetico, alle modalità di trattazione o di decisione delle impugnazioni, alla introduzione di ulteriori ipotesi di inefficacia della misura. E’ evidente pertanto che la ricaduta sul diritto intertemporale va calibrata sulla singola disposizione di modifica, posto che ben diversa portata riveste l’intervento di novellazione relativo alla descrizione dei presupposti applicativi -tema trasversale, quantomeno in virtù di quanto previsto dalla previsione di cui all’art. 299 c.p.p. – rispetto a innovazioni calibrate sulla struttura argomentativa del titolo genetico (actum di certo esaurito con la sua emissione) o riguardanti le modalità di trattazione e decisione della impugnazione (essenzialmente di natura procedimentale).

Limitando, pertanto, l’analisi alle disposizioni che ridisegnano oneri, diritti, facoltà e decadenze della fase della impugnazione (essendo tale la natura del riesame), va ricordato come in via generale è stato affermato nella presente sede di legittimità che il regime applicabile in materia di impugnazioni (con particolare riferimento alla stessa potestà di impugnare) in caso di modifica di disciplina normativa intervenuta medio tempore è quello vigente al momento della emissione del provvedimento impugnato (Sez. U. n. 27614 del 29.3.2007). Con ciò tuttavia la Sezioni Unite di questa Corte non hanno – ad avviso del Collegio – inteso affermare che, in ipotesi di perdurante facoltà di impugnazione (nella disciplina previgente ed in quella successiva) le eventuali modifiche di disposizioni “interne” alla fase de qua possano avere effetto solo dal momento della emissione dei provvedimenti “impugnabili” che sia successiva alla entrata in vigore della legge di modifica (come in taluni recenti arresti è stato affermato, a proposito della legge qui scrutinata).

Va infatti considerato l’ambito della suddetta pronunzia (unica operazione che ne identifica in modo coerente i contenuti), in realtà chiamata a dirimere dubbi interpretativi circa gli effetti della L. 20 febbraio 2006, n. 46, normativa che incideva in via diretta sulla stessa potestà di proporre l’impugnazione dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento (novellazione concernente, dunque, l’an della impugnazione, come è noto oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale).

In tale decisione le Sezioni Unite di questa Corte, peraltro, nel considerare la sorte della impugnazione che era stata proposta dal Pubblico Ministero e dichiarata inammissibile per effetto della disciplina sopravvenuta hanno testualmente affermato che “l’attivazione del rapporto di impugnazione e la regolamentazione del suo successivo iter non possono che soggiacere alle disposizioni vigenti al momento in cui la corrispondente iniziativa è assunta” in ciò escludendo che la successiva declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impeditiva potesse spiegare effetto su tale rapporto per la mancata contestazione della inammissibilità a suo tempo dichiarata.

Già in tale affermazione si rinviene, pertanto, una lettura delle norme “interne” alla fase che segna quale momento dirimente quello della avvenuta presentazione dell’atto di impugnazione.

L’aggancio temporale alla emissione del provvedimento “impugnabile” è stato ritenuto invece essenziale – in detta decisione – al fine di mantenere in vita la stessa facoltà di impugnazione, sottratta da norma emanata successivamente (in particolare per quanto riguardava la facoltà di impugnazione della parte civile agli effetti penali nei casi di ingiuria e diffamazione).

E’ in rapporto a tale particolare situazione – ossia la sottrazione dello stesso potere di impugnare da parte di norma successiva alla emissione del provvedimento assoggettato a gravame – che viene dunque compiuta l’affermazione in diritto per cui il “regime” delle impugnazioni, in caso di successione di leggi, va rapportato alla legge vigente al momento del deposito della sentenza, posto che “è in rapporto a quest’ultimo actus ed ai tempi del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e termini per esercitarla..”.

Dunque, si badi bene, l’affermazione di principio – cui si presta piena adesione – non concerne le modalità di trattazione del giudizio di impugnazione ma la esistenza del potere di impugnare e la regolamentazione dell’esercizio di tale specifico potere.

E’ evidente, pertanto, che una legge successiva al deposito di un provvedimento – impugnabile secondo la legge previgente – non può cancellare (salva espressa disposizione transitoria) detta facoltà, posto che il tempus (ossia la legge regolatrice) va correlato all’actum rappresentato dal deposito della decisione impugnabile.

Questo – e non altro – era l’oggetto della decisione risolto in tale arresto, che pertanto non può spiegare alcun effetto di “regolamentazione interpretativa” del fenomeno – come quello qui investigato – di successione nel tempo di disposizioni tese a regolamentare in modo diverso gli Scadimenti processuali “interni” alla fase della impugnazione, fase riconosciuta come possibile, su iniziativa di parte, in entrambe le normative (precedente e successiva).

  1. Ciò posto, è da escludersi che – in via generale – l’applicazione del principio tempus regit actum determini la possibile applicazione delle novità normative di cui alla L. n. 47 del 2015 – in tema di procedimento di riesame – esclusivamente in riferimento a decisioni impugnabili (ossia titoli cautelari genetici) emessi in epoca successiva alla data dell’otto maggio 2015 e, per quanto sinora affermato, l’analisi va compiuta in relazione al contenuto di ogni singola disposizione, tenendo presente quanto sinora affermato.

Nel caso qui in esame si tratta di stabilire esclusivamente se la previsione – innovativa – del termine perentorio di deposito della motivazione dell’ordinanza conclusiva del procedimento (giorni trenta, a pena di inefficacia del titolo cautelare) sia o meno applicabile a decisioni emesse prima della data di entrata in vigore della legge in questione.

La soluzione, a parere del Collegio, non può che essere negativa, per le seguenti considerazioni.

L’actum che in tal caso viene in rilievo è rappresentato dalla decisione, che per dettato normativo assume la forma dell’ordinanza.

Sul piano del modello legale, l’ordinanza è atto unitario che – di regola – non comporta scissione tra parte dispositiva e parte argomentativa e pertanto non è riconoscibile alcuna autonomia “strutturale” della parte motiva (ove depositata separatamente) rispetto al dispositivo.

Ciò influisce – in modo rilevante – sulla individuazione della norma regolatrice ratione temporis che è pertanto da ritenersi quella vigente al momento della emissione dell’ordinanza stessa, pur se la medesima viene resa manifesta – provvisoriamente – attraverso il deposito del solo dispositivo.

Come è noto, la regola generale è quella – in caso di deposito del solo dispositivo, evento comunque idoneo a manifestare all’esterno l’avvenuta decisione sì da scongiurare la sanzione della perdita di efficacia della misura (Sez. U. n. 11 del 25.3.1998, rv 210607) – del deposito integrale del provvedimento entro giorni cinque, ai sensi dell’art. 128 c.p.p., norma presidiata (sino alla data dell’otto maggio 2015) da sanzione esclusivamente extraprocessuale (eventuali profili disciplinari, civili o anche penali).

Può dirsi pertanto che il legislatore dell’aprile 2015 ha inteso contrastare una prassi di dilatazione di detto termine oltre limiti fisiologici – fatto che incide sulla ulteriore facoltà di impugnazione ai sensi dell’art. 311 – sia attraverso l’introduzione di un diverso ambito temporale di tollerabile scissione che mediante l’introduzione espressa di una sanzione processuale di notevole incidenza, rappresentata dalla pedita di efficacia di una misura cautelare oggetto di conferma.

Tale ultimo aspetto, radicalmente innovativo, non può che rafforzare – per la sua natura di norma sanzionatoria regolatrice del momento della decisione, tale da condizionare la stessa efficacia della misura cautelare oggetto di conferma – la considerazione sin qui espressa, posto che l’introduzione di una sanzione processuale non può realizzare i suoi effetti in rapporto a segmenti del procedimento temporalmente antecedenti alla vigenza della norma che la contiene.

Non può pertanto ritenersi che l’esistenza prasseologica di una scissione – anche consistente – tra il deposito del dispositivo e quello della motivazione dell’ordinanza realizzi una condizione di radicale “autonomia” del momento puramente espressivo della motivazione rispetto a quello della decisione, il che porta ad escludere la possibile “attrazione” di tale attività, se non ancora realizzata, nell’ambito applicativo della nuova previsione di legge.

In tal senso va rielaborata la motivazione dellla ordinanza impugnata, affermandosi, per tali ragioni, che l’art. 11 comma 5 della L. 16 aprile 2015, n. 47 va ritenuto applicabile alle decisioni emesse nelle procedure incidentali di riesame personale solo dal momento della entrata in vigore della legge medesima.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’Istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, il 14 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2016