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Zone Economiche Speciali, nuove frontiere dello sviluppo

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Premessa

Si insiste da tempo, nei Rapporti SVIMEZ sull’Economia e in più specifici approfondimenti di ricerca su come e perché il Mezzogiorno rappresenti la grande opportunità per avviare un percorso durevole di ripresa e di trasformazione dell’economia italiana.

In diverse occasioni, l’Associazione ha ribadito l’esigenza di definire una strategia articolata su alcune direttrici di intervento prioritarie e tra loro fortemente interconnesse, funzionali alla promozione dello sviluppo.

Per affrontare la crisi di competitività del Sud e dell’intero Paese, occorre attivare una politica capace di interpretare e coerentemente sviluppare una prospettiva euromediterranea: logistica a valore, energie rinnovabili, rigenerazione urbana e ambientale, agroalimentare e reindustrializzazione, sono i terreni sui quali praticare una logica industriale finalizzata a tradurre in pratica il proposito di “cambiare verso” al Paese, attualmente poco più di uno slogan.

Il costo dell’inerzia

Fin dall’inizio della crisi, l’azione di politica economica è stata orientata a “mettere i conti pubblici in ordine” adottando la strategia dell’austerità espansiva, con il risultato di far letteralmente crollare non solo la dinamica (esangue fin dalla fine degli Anni ’90) ma financo il livello del prodotto lordo e – di conseguenza – di far lievitare anziché ridurre il rapporto debito/PIL e di alimentare una devastante disoccupazione di massa. Ancora oggi dobbiamo registrare con preoccupazione che prosegue una linea di condotta apparentemente meno fondamentalista ma parimenti incapace di mettere in moto l’economia.

Si teorizza infatti che sia essenziale procedere per riforme “strutturali”, strappando margini di flessibilità in Europa e che lo Stato debba rimanere nel ruolo di mero regolatore di un mercato, al quale affidare il compito di realizzare il rilancio dell’economica. Questa consolidata prassi di “inerzia riformista” sembra incapace di porre mano al necessario riposizionamento strategico e alle urgenze sociali del Paese. Appena ieri (24.5.2016) il Fondo Monetario Internazionale a conclusione della sua visita in Italia osserva: «…Il governo con le sue politiche prevede di realizzare una crescita in Italia dell’1,1% quest’anno e del 1,25% nel 2017 e nel 2018. Questa previsione rischia di rivelarsi ottimistica a causa della volatilità dei mercati finanziari, dell’eventuale Brexit, dell’aumento del fenomeno dei rifugiati, del rallentamento del commercio mondiale…». E aggiunge «…Questo ritmo di crescita implica che l’attività produttiva tornerebbe ai livelli del 2007 soltanto alla metà degli Anni ‘20, allargandosi così la forbice con la crescita media dell’area dell’euro».

A commento si è giustamente detto che «…si sarebbero dovute sentire le proteste del governo… Invece il silenzio, che è l’indice più certo della rassegnazione. Ma non doveva il governo cambiare il verso all’Italia? Tutto è lecito tranne il silenzio e la rassegnazione». La profezia risulta tutt’altro che infondata: c’è il rallentamento del commercio mondiale, c’è stata la Brexit, il fenomeno dei rifugiati è in espansione e la volatilità dei mercati è una delle poche cose stabili. E già il Governo ha dovuto rivedere, nettamente al ribasso, le previsioni per il 2016, 2017, 2018 e 2019 ((0,8%, 1,0%, 1,0%, 1,0%); correzioni peraltro ritenute ancora (aprile 2017!) ottimistiche. Di questo passo non a metà, ma piuttosto verso la fine degli Anni ’20 del secolo ritorneremo al PIL del 2007 (il Centro-Nord dovendo recuperare 8 punti ed il Sud oltre 12 punti). Persuasi che, non possiamo accontentarci di agganciare le incerte vicende delLa ripresa internazionale, l’esigenza fondamentale è capire quali siano le nostre potenzialità per recuperare più rapidamente le perdite cumulate dal 2007. Se cioè in questa fase critica e fluida del processo di globalizzazione vi sia una realistica possibilità non solo di risalire più rapidamente dal precipizio imposto al Paese dalla Austerità ma anche di sanare gli effetti territoriali drammaticamente asimmetrici (Tabella 1).

Tabella 1. Effetti asimmetrici dell’Austerità

Paesi

1996- 2000

2001- 2007

2008- 2014

2014

2015

2008- 2015

1996- 2015

Mezzogiorno

10,5

4,5

-13,2

-1,2

1,0

-12,3

1,3

Centro-Nord

10,3

9,7

-7,8

-0,1

0,7

-7,1

12,5

Italia

10,4

8,5

-9,0

-0,3

0,8

-8,3

9,8

Unione Europea

(28 paesi)

15,4

17,0

0,9

1,4

2,0

2,9

38,8

Area dell’euro

(18 paesi)

14,8

14,7

-0,9

0,9

1,7

0,8

32,7

Area non Euro

18,3

23,9

6,1

2,7

2,8

9,0

59,8

Germania

10,0

10,2

5,3

1,6

1,7

7,1

29,7

Spagna

22,2

27,7

-6,3

1,4

3,2

-3,3

50,9

Francia

15,4

13,8

2,6

0,6

1,3

3,9

36,5

Grecia

19,6

32,0

-26,0

0,7

-0,2

-26,2

16,6

duplice, necessaria condizione di “accessibilità” e attrattività” del Sistema Italia. In aggiunta, come si argomenterà più oltre, lo strumento delle ZES, rappresenta una concreta innovazione istituzionale, di estremo rilievo che consente di avviare nel più appropriato dei modi quella fiscalità di sviluppo prevista nell’articolo 2 della legge 42 del 2009 di attuazione del federalismo fiscale, finora – e non per accidente – del tutto disattesa. Superare lo schema Centro-Periferia nell’approccio Nord-Sud è funzionale a ridefinire il rapporto tra macro aree mediterranee e settentrionali dell’UE. Più specificamente, nel nostro caso, aprirsi all’interdipendenza con lo sviluppo di una logistica “a valore” è un requisito essenziale per iniziare a dissolvere la cronica patologica dipendenza meridionale1. E la ridefinizione, già oggi possibile, di questo rapporto è anche la premessa per dare un futuro alle relazioni con la sponda sud, attualmente “congelate” dal più che precario equilibrio medio-orientale ed africano. Con le ZES si tratta di dar corso – bruciando i tempi e superando intralci – ad una razionale fruizione del “bene posizionale” Italia che “questa” globalizzazione oggettivamente pone come cardine naturale della prospettiva euromediterranea. Un concetto, quello di bene posizionale, concreto e, per noi, di rilievo essenziale ai fini del riposizionamento competitivo del nostro sistema. Il concetto di bene posizionale (che rinvia alle pionieristiche riflessioni di Fred Hirsch, 1977) si declina in molteplici aspetti dai quali promana una rete di connessioni le cui implicazioni sono finora rimaste del tutto trascurate. Beni posizionali per eccellenza sono tanto i siti portuali che i beni culturali: due enormi patrimoni disponibili e sottoutilizzati che, se rimessi nella catena del valore del circuito-mondo, secondo metodi e regole appropriate (qualità infrastrutturale e fruibilità), possono trasformare, da Sud, la decadente stagnazione in stabile sviluppo. È evidente – considerando i porti – come, a parità di costi unitari e offerta di servizi “a terra”, la nostra collocazione consentirebbe al Paese di fruire di una enorme rendita di tipo ricardiano. A questo scopo, il compito di attivare il potenziale vantaggio naturale spetta ad una solerzia produttiva attentamente programmata: un compito di competenza essenzialmente pubblica. La fruizione della rendita presuppone infatti di realizzare precise azioni che garantiscano – come è possibile fare – livelli di costi unitari relativi e standard dei servizi offerti adeguati. In altri termini solo una accorta politica di valorizzazione dei siti, del loro governo, consente di mettere a frutto il fattore rendita. Il passaggio da valore virtuale a valore effettivo comporta attività e strategie produttive di grande impegno e – fondamentalmente – scelte politiche di medio-lungo termine. Rinverdire la tradizione di una accorta politica pubblica dell’offerta è una indispensabile premessa per attivare questo processo e, quindi, attivare l’afflusso di risorse private. In alternativa, invece della rendita il Paese subisce una perdita secca a vantaggio di chi (nel caso specifico il Nord dell’Unione) ha accortamente predisposto misure adatte a compensare proprio gli svantaggi posizionali. Il perché dell’inerzia (un incompetente e al contempo impotente localismo abbinato alla carenza – ideologico-operativa – di un “centro” privo di strumenti, di visione strategica e anche di memoria) merita evidentemente attenzione perché solo rimuovendo questi fattori di blocco potrà iniziare l’inversione di tendenza. I fattori di blocco sembrano formidabili a giudicare dalle dimensioni del fenomeno. Infatti, mentre il 40% dei traffici mondiali passa per il Mediterraneo solo una quota molto esigua usa (nei due sensi) le sponde italiane. Si entra da Suez e si esce da Gibilterra, per approdare dopo 5 giorni di navigazione aggiuntiva a Rotterdam, Amburgo, ecc. In termini di consumi di energia, di sostenibilità ambientale, di inquinamento, di rispetto dell’ambiente e del clima, questa sequenza è l’esatto contrario degli obiettivi che la UE si prefigge. Dunque, in teoria, l’Europa ha tutto l’interesse a valorizzare e consolidare secondo criteri di realistico bilanciamento un Southern range che faccia da contrappeso e decongestioni il ruolo dominante del Norhern range proprio in nome di obiettivi vitali come la sostenibilità ambientale, la riduzione dell’inquinamento, un più contenuto ricorso all’utilizzo di risorse energetiche fossili, ecc. e, non da ultimo, per contenere le tensioni territoriali dell’Unione che contraddicono le finalità delle sue politiche di coesione. Il fatto che questo interesse venga vanificato dal razionale calcolo di convenienza centrato sui costi operativi testimonia quanto inadeguata sia finora la promozione dell’opzione euromediterranea.

E così, da noi, Gioia Tauro, rischia la cassa integrazione, Taranto è da due anni non operativo, abbandonato dagli investitori cinesi di Evergreen che, dopo una vana attesa, hanno optato per acquistare il porto del Pireo. Si è appena sanata l’annosa vicenda dell’autorità portuale di Napoli che, di conseguenza, sconta i ritardi cumulati. Un panorama che illustra anni di sperpero della potenziale rendita di posizione proprio nelle aree dove più acuta è la crisi. La logistica, in questa dimensione, è politica, politica nazionale e lo Stato dovrebbe responsabilmente assumere il ruolo di regista. Il rafforzamento e il completamento delle reti infrastrutturali diviene perciò una necessaria condizione da soddisfare, l’elemento propulsore che può favorire il processo di integrazione del sistema produttivo meridionale nel mercato internazionale. A questi scopi lo sviluppo della logistica a valore ha un ruolo cruciale per ridisegnare funzioni e ruolo del sistema italiano a scala europea. In tal senso, la proposta SVIMEZ delle Filiere Logistiche Territoriali, rappresenta uno strumento operativo teso a ridurre il gap infrastrutturale che condiziona i settori di eccellenza (si pensi, in primo luogo, all’agroalimentare di qualità) così da assicurare al Sud una maggiore apertura al mercato globale. Nell’ottica hirschmaniana dei linkages, di “una cosa che conduce a un’altra”, il potenziale di questa strategia viene rafforzato dall’apporto che il Mezzogiorno può offrire sul fronte delle fonti di energia sia tradizionale che rinnovabile (si pensi alle potenzialità inespresse della geotermia), si aggiunge così quello energetico al vantaggio logistico (che con le ZES significa anche vantaggio fiscale). La rigenerazione territoriale, è parimenti un terreno privilegiato strettamente connesso e che ha come elementi portanti la riqualificazione edilizia, la ristrutturazione urbanistica, l’efficientamento energetico, dando così contenuti al recupero e valorizzazione del patrimonio archeologico, architettonico e artistico, cioè ad un serio approccio al tema dell’industria culturale. Parimenti l’effetto indotto promosso dalla logistica è lo sviluppo della filiera agroalimentare supportato da una convenienza localizzativa per l’agroindustria, che coinvolge tutte le Regioni del Mezzogiorno. Molti ambiti dunque presuppongono delle strategie integrate e lo sviluppo della logistica a valore come traino dell’opzione euromediterranea può risultare l’architrave di questa architettura.

Un ingrediente necessario

Il carattere delle ZES come strumento per realizzare questo cambiamento necessita di articolata riflessione2. Si è detto della valenza biunivoca di questo strumento che condiziona l’attrattività di investimenti all’esigenza di una effettiva accessibilità attrezzata del territorio. A questo scopo l’istituzione delle Zone presenta una serie di nodi da sciogliere, di scelte da fare, funzionali ad una effettiva politica di sviluppo. Va sottolineato che esse non sono contenitori standardizzati, prototipi uniformi o rigidi, al contrario possono rappresentare veri e propri laboratori di innovazione, utili per inserire rapidamente nel sistema aspetti di innovazione sia tecnologica che istituzionale; questa loro versatilità risponde ai canoni ed alla evoluzione della nuova configurazione dei sistemi industriali e produttivi in generale. La ZES si propone infatti come una potenziale area che attrae e incardina sul territorio aspetti significativi delle catene del valore, sia per la componente servizi che per la componente tecnologica e della “quasi manifattura” che tipicamente si sviluppa ormai come fenomeno fortemente consolidato proprio nei retroporti organizzati nei cosiddetti distripark. La funzione ZES ha perciò potenzialmente una dimensione al contempo estremamente operativa ma anche sperimentale e, pur se di limitata dimensione, è idonea ad attrarre e insediare molteplici tipologie di imprese, tanto più se si privilegia un sistema “geneticamente” duttile nel senso che, con il disegno delle agevolazioni e delle funzioni, può mirare a specializzazione e/o diversificazione. L’attrattività logistica e fiscale, si rivolge sia a grandi imprese che a sviluppare un indotto di piccole e medie unità operative. Il riscontro di questi molteplici tratti significativi emerge, ad esempio, dall’esperienza del sistema delle 14 Zone Speciali polacche che in meno di un decennio hanno realizzato risultati molto significativi sia quanto ad investimenti (attratti) che di occupazione.

Tabella 2 – Investimenti e posti di lavoro nelle ZES Polacche, 2005-2015

Anni

Indicatori

Investimenti totali (in miliardi PLN*)

Тasso annuale di crescita degli investimenti (in %)

Numero totale di posti di lavoro (in migliaia)

Тasso di crescita dei posti di lavoro (in %)

2005

4,66

113,4

74,6

26,4

2006

5,78

24,1

112,2

50,5

2007

9,72

68,2

146,4

30,5

2008

10,66

9,6

182,4

24,6

2009

10,62

-0,3

210,5

15,5

2010

9,88

-6,9

208,0

-1,2

2011

6,63

-32,9

224,0

7,7

2012

6,45

-2,8

240,8

7,5

2013

6,16

-4,4

247,5

2,8

2014

7,31

18,6

266,7

7,8

2015

7,86

7,5

287,3

7,7

In 10 anni, gli investimenti totali effettuati nelle ZES polacche ammontano a 85,73 miliardi di zlotys; mentre i posti di lavoro creati sono stati 212.700. Così come, in Marocco, la ZES di Tangermed in pochissimi anni ha occupato nel suo retroporto oltre 40000 addetti.

Nelle aree polacche di insefiamento di una zona economica speciale, la disoccupazione è inferiore del 2 o 3%, e il PIL più alto del 7,8%, rispetto alla media delle altre aree.

Qualche indicazione normativa e regolamentare

Dal punto di vista della normativa europea le ZES si riferiscono all’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) che prevede 4 condizioni di ammissibilità: Che la misura abbia origine statale. Che non falsi la concorrenza. Che non incida sugli scambi tra stati membri. Che non dia vantaggi selettivi a specifiche imprese e produzioni.

Condizione preliminare necessaria è l’approvazione di una carta degli aiuti a finalità regionale per Stato membro. Gli aiuti di stato compatibili sono quelli destinati a favorire lo sviluppo di regioni con tenore di vita anormalmente basso. Da questo punto di vista in Italia le zone idenificate, per un totale di 20,6 ml abitanti (34% del totale), sono Basilicatia, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna, Sicilia e ciò logicamente in coerenza con la definizione dei territori ammissibili alle politiche di coesione dell’Unione dove rileva la condizione di forte sottoccupazione, del PIL pro-capite inferiore al 75% della media UE, nonchè – a complemento – la specificità di zone scarsamente popolate. L’investimento ammesso alle agevolazioni deve essere mantenuto nella zona beneficiaria almeno per 5 anni (tre per PMI) e i beneficiari devono concorrere ad almeno un 25% dei costi ammissibili in forme prive di sostegno pubblico. I livelli di aiuto a progetti di investimento sono tra 10% e 25% dei costi per grandi imprese, maggiorabili del 10% per le medie imprese e del 20% per le piccole imprese. Il Regolamento Generale UE n.651-2014 esenta dall’obbligo di notifica gli aiuti a finalità regionale agli investimenti, al funzionamento e allo sviluppo urbano per gli investimenti delle pmi, per le grandi solo l’investimento iniziale di una nuova attività economica In tema di agevolazioni fiscali, non prevedendo la legislazine la possibilità di riduzioni dell’IRES, per interventi su questo aspetto occorre un provvedimento legislativo ad hoc. È libera invece la possibilità di incidere sul cuneo fiscale con interventi sull’IRAP, una imposta che già di per sè prevede una banda di oscillazione su base territoriale. Incentivi aggiuntivi specifici di contenimento del costo del lavoro, come condizione di attrazione degli investitori sono ovviamente la fiscalizzazione degli oneri sociali per quote che possono variare dal 45% al 75%. Particolare rilievo, naturalmente, hanno le agevolazioni riguardanti gli oneri doganali: Il regime delle immissioni in libera pratica esenta dagli obblighi doganali le merci destinate ad uno Stato destinatario permettendo di circolare liberamente fatta eccezione per IVA, accise, imposte consumo dovute allo Stato di destinazione. Il regime di deposito doganale: consente lo stoccaggio della merce nel deposito sospendendo il pagamento dei diritti doganali e consentendo di negoziare le merci giacenti come se si trovassero ancora all’estero. Il regime di perfezionamento attivo rende possibile sottoporre all’interno della UE merci non europee a qualsiasi trattamento per riparazione, messa a punto, trasformazione senza oneri doganali (dazi ed IVA) e libere dall’applicazione di misure di politica commerciale. Nelle ZES possono essere previste anche agevolazioni finanziarie a sostegno degli investimenti privati per la realizzaione di interventi complementari e funzionali nelle modalità che deve essere definita con decreto del Ministero dello Sviluppo Economico. Poichè l’insieme delle provvidenze configura l’ipotesi di aiuto di Stato, la costituzione delle ZES deve avvenire con provvedimento del Parlamento e, notificata, deve passare il vaglio della Direzione Generale Concorrenza della Commissione Europea per verificarne la conformità ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 3 del TFUE. In definitiva l’interesse a istituire ZES deve essere nazionale, motivato dall’obiettivo di accelerare lo sviluppo di ben individuate aree e tale che facciano da traino per tutto il sistema. In questo senso un sistema di ZES prevalentemente localizzate nel Mezzogiorno ben si sposa con la visione euromediterranea perché consente di realizzare il triplice obiettivo di realizzare in tempi rapidi una politica nazionale di sviluppo coerente a perseguire un fondamentale processo di riequilibrio territoriale. Si replica così una politica attiva dell’offerta che, come dimostra il differenziale di impatto della spesa pubblica in conto capitale, ha una efficacia relativamente e significativamente più rilevante nelle aree meridionali (molto più provate dalla crisi) sia sotto il versante del prodotto lordo che dell’occupazione. È inoltre da sottolineare il significato che un sistema di Zone ha sul versante isitutzionale, rappresentando la possibilità di avviare una strategia che le individua come uno strumento operativo (o, se si vuole, la via di minor resistenza) per affrontare i molti e complessi passaggi di un mai avviato percorso di attuazione del Federalismo fiscale.

Zone Economiche Speciali e federalismo fiscale

Con la riforma del titolo V del 2001 il Mezzogiorno scompare dalla Costituzione. Ad esso allude solo il quinto comma dell’articolo 119 riformato che attribuisce la potestà esclusiva dello Stato a destinare risorse aggiuntive per programmi straordinari di intervento a favore della coesione sociale. Questo unico nesso specifico, va inquadrato nella restante parte della riforma che garantisce il finanziamento integrale dei diritti essenziali (istruzione, sanità, mobilità) su tutto il territorio nazionale. Di tutto questo poco è stato realizzato, così che – causa la crisi e la gestitone asimmetrica dell’austerità – siamo ben lungi dalla garanzia dei diritti fondamentali di cittadinanza sul territorio nazionale. Ciò nonostante che, fin dal 2009, sia in vigore la legge 42 per l’attuazione del federalismo fiscale. In apparenza estraneo al tema, quello dell’attuazione del federalismo secondo la legge 42 assume un ruolo di primo piano per ragionare su come dar corpo alla strategia dell’opzione euromediterranea. Sembra più che realistico ipotizzare che a tal fine può tornare utile l’applicazione della normativa vigente finora del tutto ignorata. Un esempio è fornito dalla “perequazione infrastrutturale” prevista dalla legge, non solo disattesa ma, anzi, operante in senso opposto. Essa ha visto, sia pur timidamente, un qualche riconoscimento nella disposizione dell’articolo 7-bis della legge 27 febbraio 2017, n.18 che impegna il Governo ad una spesa in conto capitale nei territori pari alla quota della popolazione. Ai nostri fini merita particolare attenzione il fatto che la istituzione di un sistema di ZES nel Mezzogiorno può inquadrarsi come attuazione di un principio generale definito dall’articolo due della legge che prevede “… in conformità con il diritto comunitario … forme di fiscalità di sviluppo, con particolare riguardo alla creazione di nuove attività di impresa”. Il neologismo fiscalità di sviluppo, allude al più popolare concetto di fiscalità di vantaggio. In realtà, con l’allargamento dell’Unione Europea, la fiscalità differenziata più che offrire un vantaggio diviene a mala pena strumento di salvaguardia rispetto al vero e proprio dumping fiscale che l’Irlanda prima e, dal 2004 i nuovi entranti poi, hanno praticato in seno all’Unione. Nel nostro caso, in particolare, alla differenziazione a salvaguardia dal dumping dovrebbe aggiungersi anche una ulteriore diversificazione, questa volta interna al fine di orientare le convenienze coerentemente alle esigenze di un sistema dualistico, cioè territorialmente fortemente differenziato. Il diritto comunitario, come noto, vieta o fortemente limita differenziazioni “interne a un Paese” in ambito fiscale; un dato che risulta particolarmente penalizzante proprio per un sistema dualistico. A nulla finora è valso argomentare che da quando il regime di moneta unica ha eliminato ogni distinzione valutaria tra Stati e Regioni appartenenti ad uno Stato, non ha senso introdurre una inconcepibile asimmetria che non consente difesa di singoli territori – specie se svantaggiati – rispetto alla persistente eterogeneità fiscale tra Stati. È evidente peraltro che nel caso si vogliano promuovere politiche di sviluppo in realtà dualistiche, ciò pone necessariamente l’esigenza dell’adozione di una fiscalità differenziata anche al suo interno 

come strumento di promozione della competitività/attrattività territoriale. Finora tutto ciò è stato impossibile, e gli effetti sono evidenti a giudicare dal consuntivo sconsolante delle varie Agende che dal 1998 hanno caratterizzato da noi le cosiddette politiche di coesione. Secondo la Corte di Giustizia Europea una fiscalità di vantaggio “regionale” risulta ammissibile se essa è decisa da un ente dotato di “piena autonomia istituzionale, procedurale e finanziaria” rispetto al governo centrale dello Stato di appartenenza. La Corte, aderisce così ad un’impostazione che nel gergo dei modelli di federalismo è fortemente orizzontale, laddove per le politiche di sviluppo di un sistema dualistico è essenziale mantenere un carattere verticale dell’intervento. È il caso sperimentato con l’IRAP che con la sua banda di oscillazione delle aliquote predeterminata dallo Stato, introduce una competizione fiscale interna che necessariamente favorisce le regioni a maggior capacità fiscale. L’orizzontalità, in una platea multi regionale, non può che incentivare una competizione fiscale che di fatto se può salvaguardare singole posizioni di competitività rispetto a minacce esterne al sistema, non risulta per nulla efficace, ma anzi controproducente per puntare al riequilibrio tra realtà territoriali del sistema. Ecco quindi che un sistema di Zone Economiche Speciali attivabile solo per iniziativa dello Stato e non a discrezione di un ente territoriale, risulta particolarmente adatto oggi come strumento operativo purché sia messo al sevizio di un disegno strategico teso, nel nostro caso, a realizzare una politica economica dell’offerta. Nel caso specifico, essa dovrebbe perseguire non l’obiettivo di agganciare la crescita proponendo invece una prospettiva euromediterranea nel Mezzogiorno e, con essa, il passaggio dalla dipendenza all’economia dell’interdipendenza, ed il riposizionamento del Sistema. Rispetto alle storiche difficoltà di realizzare una fiscalità che non sia più, e solo blandamente, compensativa, oggi lo strumento delle Zone speciali consente di realizzare sotto molteplici aspetti un vantaggio all’altezza del compito individuato. Ovviamente l’intervento deve farsi a dir poco audace, cominciando anzitutto a riconsiderare – in regime di moneta unica e come obiettivo di più lungo termine – il concetto di lesione della concorrenza che finora è stato opposto nei nostri confronti. Le ZES sono uno strumento, una (tardiva) innovazione istituzionale oggi indispensabile che lo Stato può immediatamente ed efficacemente utilizzare, per accompagnare questa transizione. In questa prospettiva, un “sistema di Zone Economiche Speciali” ha la capacità di riesumare progressivamente il vantaggio posizionale, la condizione affinché la enorme rendita connaturata alla nostra centralità nel Mediterraneo possa effettivamente far da volano alla “nuova frontiera” dello sviluppo.

Riferimenti bibliografici

M. D’Amico (2016), Le Zone Economiche Speciali: una straordinaria opportunità per il rilancio dell’economia italiana, in Diritto Comunitario e degli scambi internazionali.

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E. Forte (2104) La rivoluzione logistica, Quaderno SVIMEZ novembre, n. 43.

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F. Hirsch (1977), Social Limits to Growth, in Routledge & Kegan Paul ltd, London.

INVITALIA (2016), Le Zone Economiche Speciali. Il caso di Bagnoli/Porti di Napoli-Salerno; mimeo.

SVIMEZ (2012, 2015; 2016) Rapporto sull’economia del Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna.