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L’usura torna a Piazza Cavour: è un reato a condotta frazionata

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A metà novembre, la Suprema Corte, con la pronunzia n. 53479/2017, è tornata ad occuparsi della fattispecie criminosa dell’usura ed in particolare del suo momento consumativo, a dimostrazione del fatto che tale fenomeno è tanto dilagante quanto controverso. Al fine di comprendere appieno le sorti di questa figura delittuosa, che incide fortemente sul settore economico-bancario ed è intrinsecamente collegata alle logiche lucrative della criminalità organizzata, pare opportuno tracciare un breve excursus storico-giuridico di tale reato.

Excursus storico-giuridico del reato di usura.

Il fenomeno usuraio (dal latino, “usus”, frutti derivanti dal prestito effettuato ) è sempre esistita ed affonda le sue radici storiche e sociologiche in epoca assai risalente. Difatti, il grande giurista Francesco Carrara, analizzando emblematicamente tale fenomeno, ha affermato che il caso in cui “il povero spinto dal bisogno si arrenda ed il ricco, spinto dall’avidità, sprema il povero si è sempre verificato e sempre si verificherà, in tutti i tempi come conseguenza naturale delle rispettive passioni e delle reciproche situazioni.”

Tuttavia, nonostante l’esistenza atavica di tale fenomeno nella nostra società, la risposta sanzionatoria apprestata dal nostro ordinamento giuridico non è stata sempre la medesima anzi, al contrario, ha vissuto fasi assai altalenanti.

Inizialmente, il reato di usura era contemplato dalla nostra architettura normativa tant’è che il Codice penale sardo lo prevedeva ma, poi nel 1857, parimenti a quanto successe nelle altre legislazioni europee, venne completamente abolito.

Invero, sotto la vigenza del codice Zanardelli del 1889, stante i principi di stampo liberale e il conseguente riconoscimento di liceità al prestito ad interesse, non era prevista alcuna fattispecie di usura.

Bisognerà attendere il 1930 con il codice Rocco per la reintroduzione della fattispecie criminosa de qua. Difatti, nel 1930, sotto l’influenza del fascismo, i principi liberali cedettero il passo all’ideologia moralizzatrice e fu inserito l’art. 644.

Nella sua originaria formulazione, il delitto di usura prevedeva due fattispecie punite con la stessa pena: la cd. usura diretta, anche detta usura base, di cui all’articolo 644, I comma, c.p. per la quale era necessario l’approfittamento dello stato di bisogno della vittima (particolarmente complesso da provare sul piano processuale), e la mediazione usuraia di cui al II comma dell’articolo citato.

Illo tempore non era prevista la determinazione degli interessi o degli altri vantaggi usurai, avendo di fatto il Legislatore rimesso tale definizione alla discrezionalità del Giudice che doveva, di volta in volta, adeguare gli stessi al caso di specie.

Già nel secondo dopoguerra, complice il boom economico e la necessità di “liquidità facile”, il fenomeno usuraio divenne sempre più allarmante e dilagante. In tale contesto socio-economico, mutò anche la concezione del delitto de qua: difatti, si comprese che i fatti usurai costituiscono comportamenti tipici del modus operandi della criminalità organizzata e che riciclaggio, usura ed estorsione sono risvolti della stessa medaglia.

A tal uopo, nient’affatto peregrina appare la constatazione secondo cui il decreto legge n. 306 del 8 giugno 1992 (decreto Martelli) e la successiva legge di conversione n. 356 del 7 agosto 1992 sono stati emanati dal Legislatore all’indomani delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Pertanto, il Legislatore -preso atto della inefficacia della risposta sanzionatoria di tale previsione normativa-  intervenne con la legge n. 356/1992.

Tale riforma legislativa comportò, in primis, l’introduzione della nuova fattispecie di cui all’art. 644 bis c.p., la cd. usura impropria (che abbassava il quantum probatorio, facendo riferimento, non già all’approfittamento dello stato di bisogno della vittima bensì a quello di una difficoltà economico-finanziaria); altresì, comportò l’inasprimento sanzionatorio per l’usura di cui all’art. 644 c.p. (difatti, come evidenziato, la pena prevista in precedenza non assolveva quella funzione di deterrenza nel contrastare e prevenire il delitto in esame) nonché aggiunse una circostanza aggravante ad effetto speciale di cui all’art. 644, III comma, c.p. nell’ipotesi in cui i fatti vengano commessi “nell’esercizio di un’attività professionale o di intermediazione finanziaria”.

Ciononostante, dopo appena quattro anni dal suddetto intervento legislativo, si avvertì forte l’esigenza di una nuova riforma atta a riscrivere il delitto d’usura.

L’attuale fattispecie del delitto di usura e l’elaborazione giurisprudenziale sul momento consumativo.

La legge n. 108/1996, abolendo la figura dell’usura impropria, ha riscritto ex novo la fattispecie p. e p. dall’art. 644 c.p., prevedendo tre figure di reato: l’usura presunta (art. 644, commi 1 e 3 prima parte), l’usura in concreto (art. 644, commi 1 e 3 seconda parte) e la mediazione usuraia (art. 644 comma 2).

In particolare, per usura presunta deve intendersi quella fattispecie legata ad un tasso prefissato, che fa ritenere usurario l’interesse qualora superi di oltre la metà il tasso medio annualmente praticato dagli istituti di credito per operazioni della sessa natura; a tal proposito, dottrina e giurisprudenza concordano nel definire tale previsione una “norma penale in bianco” con tutto ciò che ne consegue in termini di tassatività e determinatezza.

Per usura concreta deve farsi riferimento a quella figura per la quale si considerano usurari gli interessi che, anche inferiori al tasso soglia, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità, avuto riguardo di determinati fattori. In parte qua, il Legislatore sembra aver fatto un tuffo nel passato, ritornando indietro di diversi anni, allorquando non era stabilito alcun tasso soglia e ci si rimetteva al Giudice.

Altresì, la L. 108/96 ha eliminato il requisito soggettivo caratterizzante l’usura ossia l’approfittamento dello stato di bisogno per trasformarlo in circostanza aggravante del reato (art. 644, comma 5 numero 3, c.p.) ed ha previsto anche l’istituzione del “Fondo di solidarietà per le vittime dell’usura” ed il “Fondo di prevenzione del fenomeno usuraio”.

Peraltro, la riforma del 1996 ha inciso anche in campo civilistico prevedendo la modifica dell’art. 1815, comma 2, c.c. e quindi la trasformazione dei contratti di mutuo da oneroso in gratuito nel caso di pattuizioni usuarie.

Alla luce di tale excursus, non può sottacersi come la nuova formulazione del delitto di usura risulti profondamente diversa da quella originaria presente nel codice del 1930.

Da ciò ne discende che -mentre per quel che attiene al bene giuridico tutelato, non v’è motivo per dubitare che esso debba rinvenirsi, ora come allora, nella tutela del patrimonio del soggetto passivo (pur  non mancando al riguardo ricostruzioni alternative che vorrebbe individuarlo nella garanzia dell’ordinamento del credito o, più in generale, dell’economia pubblica)- non può dirsi altrettanto per quel che concerne il momento consumativo del reato che ha da sempre rappresentato una vexata quaestio.

A tal uopo, molto si è discusso in dottrina ed in giurisprudenza tant’è che la Suprema Corte, ad onta di svariati interventi sul punto, nel novembre 2017 è tornata a pronunziarsi sulla questione con la sentenza in esame.

L’elaborazione giurisprudenziale sul momento consumativo.

Dottrina e Giurisprudenza hanno sempre ritenuto, in maniera quasi unanime, che il delitto ex art. 644 c.p. nella sua prima formulazione andasse inquadrato tra i reati istantanei, la cui consumazione si realizzava nel momento dalla pattuizione del compenso. Tuttavia, non sono mancate tesi alternative, seppur minoritarie, che tendevano a qualificare, alternativamente, il reato come istantaneo con effetti permanenti ovvero come reato permanente.

Si parlava di reato istantaneo ad effetti permanenti perché si riteneva, da un lato, che la condotta fosse istantanea, esaurendosi nell’atto della dazione o della promessa senza protrarsi nel tempo e, dall’altro, che gli effetti fossero permanenti in quanto, essendo sufficiente la promessa, gli interessi o i vantaggi potessero essere corrisposti anche successivamente, comportando il perdurare delle conseguenze dannose della condotta tenuta dal soggetto attivo.

Secondo altra scuola di pensiero, invece, l’usura era da considerarsi un reato solo eventualmente permanente. Ciò in quanto, laddove l’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo da parte dell’usuraio si fosse protratto nel tempo per volontà di quest’ultimo, si sarebbe configurato un reato permanente; diversamente, nelle altre ipotesi il reato sarebbe stato istantaneo.

Gli Ermellini, tornando ad occuparsi di tale querelle, con la pronunzia n. 53479/2017, hanno sancito che qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non rilevante ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata.”.

Aderendo allo schema giuridico dell’usura intesa appunto quale delitto a consumazione prolungata o – come sostiene autorevole dottrina – a condotta frazionata, ne deriva che effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto.