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Diritto Penale. La produzione su Facebook di foto porno implica concreto pericolo per la diffusione dei materiali

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. La produzione su Facebook di foto porno implica concreto pericolo per la diffusione dei materiali

La III sezione penale della Corte di Cassazione attraverso la sentenza n. 16340/2015 è stata chiamata a decidere sul caso avente ad oggetto la produzione di foto pornografiche di minori sui social network. La Corte ha stabilito che tale condotta corrisponde alla più grave tra le ipotesi di pornografia minorile. Si presume il pericolo di diffusione di materiale illecito a carico di chi invia foto pedopornografiche dal suo profilo di Facebook alla bacheca del profilo Facebook di un utente della rete che abbia circa 150 contatti stante, la natura aperta del social network. La semplice pubblicazione di foto sul social network è sufficiente a configurare l’ipotesi di reato senza che sia necessaria una reale diffusione del materiale.

 

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 12-03-2015) 20-04-2015, n. 16340

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TERESI Alfredo – Presidente –

Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1708/2014 CORTE APPELLO di MILANO, del 12/06/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 12/03/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. E. Delehaye, che ha concluso per il rigetto;

Udito il difensore Giaquinto Giovanni Maria, Foro di Roma, avv. Storace Matteo Antonio di San Severo.

 

Svolgimento del processo

 

  1. Con sentenza del 12 giugno 2014 la Corte d’appello di Milano, a seguito di appello proposto da M.A. avverso sentenza del 30 settembre 2013 con cui il gip del Tribunale di Milano lo aveva condannato alla pena di sei anni e quattro mesi di reclusione per i reati di violenza sessuale aggravata e pornografia minorile aggravata commessi nei confronti di una dodicenne, in parziale riforma, riconosceva le attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, come prevalenti, rideterminando la pena in quattro anni e quattro mesi di reclusione.
  2. Hanno presentato ricorso i difensori dell’imputato, sulla base di quattro motivi.

Il primo e il secondo motivo denunciano vizio motivazionale ed erronea qualificazione del reato contestato ex art. 600 ter c.p., comma 1, qualificabile tutt’al più ex art. 600 ter c.p., comma 4, non sussistendo nell’imputato alcun intento diffusivo a una cerchia indeterminata di pedofili del materiale pornografico nè essendosi egli avvalso di una organizzazione, neanche a livello embrionale.

Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale per applicazione dell’aggravante di cui all’art. 602 ter c.p., lett. a), nella misura massima (metà della pena base) senza esternare le ragioni di tale scelta e pur avendo contraddittoriamente evidenziato nello stesso apparato motivativo vari elementi positivi a proposito del trattamento sanzionatorio, quali l’attenuante del risarcimento del danno e l’essersi l’imputato sottoposto a un trattamento psicoterapeutico con esito positivo.

Il quarto motivo denuncia ancora vizio motivazionale, per non essere stata concessa la massima diminuzione per l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, sul presupposto che il risarcimento non sarebbe stato versato prima del processo, laddove in realtà era stato versato prima dell’unica udienza (30 settembre 2013) del giudizio abbreviato, come emergerebbe dalla motivazione della sentenza di primo grado.

In data 5 febbraio 2015 è stata depositata memoria difensiva con documenti allegati, memoria nella quale si insiste sulle argomentazioni esposte nel ricorso.

 

Motivi della decisione

 

  1. Il ricorso è parzialmente fondato.

3.1.1 i primi due motivi, che possono essere accorpati nel vaglio, sono protesi ad una derubricazione del reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, e art. 602 ter c.p., essendo stato l’imputato condannato per avere indotto una dodicenne a realizzare fotografie erotiche e avere prodotto come materiale pedopornografico almeno una fotografia, in data (OMISSIS) che era stata trovata nell’hard disk del suo computer, altre tre fotografie inviandole dal suo profilo di Facebook alla bacheca del profilo di Facebook di un’amica della vittima, la quale aveva circa 150 utenti (quest’ultima aveva subito eliminato le fotografie e bloccato l’utente imputato).

Si ricorda nei motivi in esame che per realizzare una esibizione e produzione pedopornografica, secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, “non è sufficiente che la foto contenga la rappresentazione di organi genitali a scopi sessuali” occorrendo un quid pluris consistente, come insegnano S.U. 31 maggio- 5 luglio 2000 n. 13, nell’offrire “il minore alla visione perversa di una cerchia indeterminata di pedofili”: ed erroneamente la corte territoriale avrebbe ritenuto che questo sia stato integrato dalla immissione di foto pornografica sulla bacheca Facebook dell’amica della vittima. Questo sarebbe stato fatto, secondo la stessa corte territoriale, non per “condividere con il mondo dei pedofili” le condotte dell’imputato, bensì per soddisfare gli “impulsi sessuali” di quest’ultimo (motivazione, pagina 6); ma la corte si sarebbe contraddetta avendo successivamente riconosciuto (nella pagina seguente) che “la ratio della norma incriminatrice è certamente quella di combattere il mercato della pedofilia”. A ciò dovrebbe aggiungersi l’omessa motivazione sulla necessaria organizzazione almeno embrionale che per il reato in questione esige la giurisprudenza di legittimità.

3.1.2 Appare anzitutto opportuno richiamare l’insegnamento nomofilattico attinente al reato di cui all’art. 600 ter c.p., comma 1, e invocato nel ricorso.

Tale delitto di pornografia minorile costituisce reato di pericolo concreto, “mediante il quale l’ordinamento appresta una tutela penale anticipata della libertà sessuale del minore, reprimendo quei comportamenti prodromici che, anche se non necessariamente a fine di lucro, ne mettono a repentaglio il libero sviluppo personale con la mercificazione del suo corpo e l’immissione nel circuito perverso della pedofilia”, come insegnano le Sezioni Unite nella sentenza 31 maggio 2000 n. 13 citata anche nel ricorso; pertanto, insegnano ancora le Sezioni Unite, sussiste, salva l’ipotizzabilità di altri reati, quando ricorre “una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale prodotto”. Detto pericolo deve essere accertato di volta in volta dal giudice, sulla base di vari elementi sintomatici, tra i quali le Sezioni Unite annoverano anche l’esistenza di una struttura organizzativa, seppure eventualmente rudimentale, “atta a corrispondere alle esigenze di mercato dei pedofili” e “la disponibilità materiale di strumenti tecnici di riproduzione e/o trasmissione, anche telematica, idonei a diffondere il materiale pornografico in cerchie più o meno vaste di destinatari”. Insegnamento che si è consolidato nella giurisprudenza successiva di questa Sezione, la quale ha sempre colto come parametro della sussistenza del reato la consistenza del pericolo concreto di diffusione materiale (Cass. sez. 3^, 21 gennaio 2005 n. 5774; Cass. sez. 3^, 1 dicembre 2009 n. 49604), tale da non limitare la fruizione del prodotto pornografico in una sfera strettamente privata (Cass. sez. 3^, 20 novembre 2007 – 14 gennaio 2008 n. 1814), e supportata dall’inserimento della condotta in un contesto come minimo embrionale da cui derivi una destinazione almeno potenziale del materiale ad una fruizione successiva di terzi (Cass. sez. 3^, 11 marzo 2010 n. 17178;

v pure Cass. sez. 3^, 5 giugno 2007 n. 27252, correttamente citata anche nel ricorso).

3.1.3 Non si può non rilevare, peraltro, che l’intervento dirimente delle Sezioni Unite da cui si origina la giurisprudenza di legittimità che allo stato governa l’interpretazione dell’art. 600 ter c.p., comma 1, si colloca ormai in una data che può definirsi risalente, essendosi negli ultimi quindici anni espanso ad un livello all’epoca non percepibile e non prevedibile da chi non fosse particolarmente inserito nel settore il fenomeno dei cosiddetti social networks, ovvero la intensa potenza comunicativa anche tra privati nella rete, pervenuta ad una sorta di ubiquità in re ipsa di quanto prende le mosse dall’utente di un tale apparato. Laddove, pertanto, le Sezioni Unite chiedevano al giudice di merito di accertare di volta in volta la potenzialità concreta di diffusione pure mediante uno strumento telematico, l’odierno notorio insegna che l’inserimento di materiale entro un social network come Facebook più non necessita, in realtà, alcuno specifico accertamento sulla potenzialità diffusiva. E parimenti anche il riferimento a organizzazioni “rudimentali” o “embrionali” risulta ormai superato, ovvero anacronistico, tenuto conto della disponibilità quanto mai agevole che le strutture di comunicazione telematica sociale offrono oggi a chiunque se ne voglia avvalere, senza alcuna necessità di adoperarsi per porre in essere propri personali apparati. La “piazza telematica” è aperta a tutti e la sua idoneità a diffondere quanto tutti vi versano, incluso il materiale pornografico, ha raggiunto un livello notoriamente così elevato da esonerare la necessità di valutazione del concreto pericolo, nel momento in cui il materiale, appunto, è inserito entro un frequentatissimo social network, come è avvenuto nel caso di specie, in cui l’imputato lo ha veicolato su Facebook e precisamente sul profilo di un’altra minore che, di per sè, aveva già circa centocinquanta contatti. Il convogliamento di materiale, in questi casi, sulla bacheca di un account si traduce in una metastasi diffusiva con la massima facilità.

La “cerchia sterminata di pedofili” – come si esprimeva con suggestiva efficacia e oggettivo ribrezzo l’arresto sopra citato delle Sezioni Unite -, quindi, ormai non è più agevolmente e specificamente estrapolabile da una platea così estesa, miscelata e in ultima analisi onnicomprensiva come quella di un social network quale Facebook, per cui l’inserimento del materiale nel relativo meccanismo diffusorio è già di per sè potenzialmente idoneo, ovvero integra il pericolo concreto di diffusione anche tra i pedofili.

3.1.4 La corte territoriale, peraltro, ha riconosciuto che la giurisprudenza consolidata di questa Suprema Corte, non ritenendo ovviamente sufficiente la presenza del materiale sul computer personale dell’agente, esige il pericolo concreto di diffusione del materiale pedopornografico a una pluralità di soggetti, richiamando anche il tradizionale contesto organizzativo “almeno embrionale”; e, di conseguenza, giunge correttamente e logicamente a identificare il quid pluris necessario a integrare il reato proprio nell’avere “l’imputato effettivamente inviato le foto pornografiche relative alla minore su una bacheca di un profilo facebook, con il pericolo di una concreta, non controllabile, ulteriore diffusione” (motivazione, pagina 7). Non si vede, d’altronde, quale contraddittorietà abbia introdotto il giudice d’appello nella sua motivazione affermando subito dopo che “la ratio della norma incriminatrice è certamente quella di combattere il mercato della pedofilia”, considerato che, per quanto si è sopra rilevato come notorio, il mercato della pedofilia può attuarsi anche attraverso social networks come quello utilizzato dall’imputato. E che poi questo avesse intenzione non di condividere con il mondo dei pedofili quel materiale, bensì di soddisfare i propri impulsi sessuali (come nella pagina precedente la corte territoriale afferma) non ha evidentemente alcun rilievo, poichè in effetti l’imputato si è avvalso della tutt’altro che rudimentale organizzazione Facebook, la quale è intrinsecamente finalizzata ad ogni diffusione; e tale natura di Facebook – che allo stato effettivamente non riesce ad arginare la circolazione di questo tipo di materiale – è talmente notoria che la sua utilizzazione rappresentata dal versarvi materiale pornografico integra, quanto meno come dolo eventuale, proprio una consapevole volontà di divulgazione (cfr. Cass. sez. 3^, 11 dicembre 2012-31 luglio 2013 n. 33157; Cass. sez. 3^, 25 ottobre 2012 n. 44914; Cass. sez. 3^, 10 novembre 2011 n. 44065; Cass. sez. 3^, 12 gennaio 2010 n. 11082; e cfr. altresì Cass. sez. F, 7 agosto 2014 n. 46305).

In conclusione, il primo e il secondo motivo non risultano fondati.

3.2.1 Il terzo motivo denuncia mancanza e contraddittorietà di motivazione in ordine all’aumento di pena a seguito dell’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 602 ter c.p., lett. a), che prevede un aumento della pena da un terzo alla metà nell’ipotesi in cui la persona offesa sia minorenne.

Osserva il ricorrente che l’aggravante – la cui sussistenza nel caso di specie non è discussa – è stata applicata operando l’aumento massimo della pena, senza indicare “la ragione per la quale la pena veniva aumentata della metà e non in misura inferiore”. Ricorda il ricorrente che la motivazione sulle scelte dosimetriche deve intensificarsi in proporzione all’allontanamento dal minimo edittale, ovvero in proporzione all’esercizio, in senso contrario al favor rei, del potere discrezionale del giudice di merito (così, in effetti, v.

da ultimo, Cass. sez. 3^, 25 marzo 2014 n.26340; Cass. sez. 4^, 18 giugno 2013 n. 27959; Cass. sez. 2^, 8 maggio 2013 n. 28852; Cass. sez. 4^, 20 marzo 2013 n. 21294; Cass. sez. 2^, 26 giugno 2009 n. 36245), mentre sul carico concreto dell’aggravante la corte territoriale qui assolutamente tace.

Quanto rileva il ricorrente trova effettivo riscontro nella motivazione della sentenza impugnata: a fronte di un atto d’appello in cui oggetto di doglianza era anche l’eccessività della pena (come richiamato in motivazione, pagina 5), la corte territoriale ha elevato la pena base detentiva, in riferimento al reato di pornografia minorile aggravata, di una metà (da sei anni di reclusione a nove anni di reclusione) proprio per l’età della vittima, senza minimamente spiegare per quali ragioni ha individuato il massimo confine della forbice edittale per applicare l’aggravante in questione.

3.2.2 Parimenti fondato è l’ulteriore rilievo che, sempre nello stesso motivo, muove il ricorrente, e cioè l’intrinseca contraddittorietà di una siffatta scelta con quanto, sempre a proposito del trattamento sanzionatorio, il giudice d’appello aveva evidenziato, ovvero il risarcimento ricevuto dalla persona offesa, il fatto che la madre di lei si era formalmente dichiarata pienamente soddisfatta e l’avere l’imputato seguito con serietà un percorso psicoterapeutico.

In effetti, prima di procedere alla determinazione della pena con le modalità sopra indicate, e seppure formalmente (ma sono dati che oggettivamente non possono non essere connessi dal punto di vista logico anche alla questione dosimetrica in esame) per giustificare la prevalenza delle attenuanti, la corte territoriale afferma “di dover maggiormente valorizzare il comportamento dell’imputato, apprezzando da un lato il congruo risarcimento del danno alla persona, che si è detta pienamente soddisfatta, avendo anche attestato la madre della minore anche il superamento, da parte della figlia, di condizioni negative dal punto di vista psicologico, e, dall’altro, la serietà del percorso psicoterapeutico intrapreso da M.A. e la raggiunta piena consapevolezza della gravità di quanto commesso, con una valutazione prognostica favorevole in relazione al pericolo di reiterazione di reati”, il quale “percorso di maturazione e di crescita psicologica va particolarmente apprezzato e maggiormente valorizzato”. Emerge pertanto, ictu oculi, la contraddittorietà della scelta dosimetrica del giudice d’appello in relazione ad elementi la cui positività aveva appena sottolineato con tale vigore. Il motivo risulta pertanto pienamente fondato.

3.3 Analogo è il risultato che sortisce dal quarto motivo, il quale lamenta una pretesa (e, si nota, asserita del tutto genericamente) intempestività del risarcimento ex art. 62 c.p., n. 6, visto che nella sentenza di primo grado – all’esito di un giudizio con rito abbreviato celebrato in un’unica udienza il 30 settembre 2013 – si dava atto (pagina 12) che il risarcimento era già stato corrisposto.

D’altronde, se realmente il risarcimento non fosse stato corrisposto “prima del giudizio” come esige l’art. 62 c.p., n. 6, la conseguenza non avrebbe dovuto identificarsi in una sorta di compromesso (concessione dell’attenuante ma “non nella massima espansione” come è scritto nella motivazione della sentenza impugnata), bensì nel diniego dell’attenuante stessa (sulla necessità infatti del risarcimento antecedente al giudizio per applicare l’attenuante v.

Cass. sez. 3^, 23 gennaio 2014 n. 17864; Cass. sez. 2^, 13 novembre 2012 n. 45629; Cass. sez. 4^, 17 dicembre 2009 – 14 gennaio 2010 n. 1528; Cass. sez. 4^, 28 marzo 2008 n. 30802).

Sia per quanto riguarda, dunque, il terzo motivo, sia per quanto riguarda il quarto motivo la sentenza deve pertanto essere annullata con rinvio ad altra sezione della corte territoriale, per il resto rigettandosi il ricorso.

In caso di diffusione del presente provvedimento occorre omettere le generalità e gli altri dati identificativi, D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 52, in quanto disposto dalla legge.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Rigetta nel resto.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto disposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 12 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2015