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Diritto Penale. Condanna per il youtuber che pubblica il video che ritrae pose oscene della vittima.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Diritto Penale. Condanna per il youtuber che pubblica il video che ritrae pose oscene della vittima.

 

Costituisce reato ricattare una persona minacciandola di pubblicare su “Youtube” un video che possa mettere la stessa in imbarazzo, in particolare se la vittima è una donna.

Lo ha deciso la Corte di Cassazione con sentenza n. 40356/15, depositata l’8 ottobre, chiarendo l’ambito applicativo dell’art. 610 c.p. e gli elementi costitutivi del reato di trattamento illecito dei dati personali disciplinato dall’art. 167 d.lgs. n. 196/2003.

La Corte, ritenendo infondate le censure mosse dalla difesa del youtuber, in ordine alla insussistenza di elementi di indagine idonei a sostenere la configurabilità del reato ex art. 610 c.p., statuisce che il delitto di violenza privata, secondo un consolidato orientamento, si consuma ogni qual volta l’autore con la violenza o con la minaccia lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa.

Al contrario della minaccia che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita.

Attraverso un percorso argomentativo giuridicamente corretto dunque la Corte di Appello aveva ritenuto l’uomo colpevole per avere “coartato la capacità di autodeterminazione di una ragazza tenendola sotto scacco”, come dimostrano le numerose e-mail dai contenuti intimidatori da lui scritte, con l’avvertimento che, se non avesse intrattenuto contatti informatici con lui, la pubblicazione del video, in una “cerchia ristretta” come quella in cui vivevano, avrebbe fatto scalpore e della vicenda “tutti avrebbero sparlato e l’avrebbe macchiata per sempre”.

Infondato è stato giudicato dalla Cassazione anche il motivo di ricorso avverso la condanna per violazione della privacy.

Mentre la difesa ha asserito che dalla pubblicazione del video on line non sarebbe derivato alcun danno alla donna (dato che “l’inserimento del video su Youtube non comportava l’accesso da parte di persone terze”, non avendo l’imputato inserito gli “hashtag”, cioè i criteri di ricerca, tanto che lo stesso “aveva minacciato la divulgazione su Facebook”), la Corte disattende le menzionate censure, statuendo che nel reato di illecito trattamento di dati personali di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167, il “nocumento” per la persona offesa -che nella fattispecie previgente si configurava come circostanza aggravante, e che oggi costituisce elemento essenziale del reato o, secondo altro orientamento, condizione obiettiva di punibilità- rende la figura criminosa inquadrabile nella categoria dei reati di danno e non (più) di mero pericolo.

Il nocumento, necessario ai fini della realizzazione della condotta criminosa, va inteso, a differenza del danno, come qualsiasi effetto pregiudizievole che possa scaturire dall’arbitrario comportamento invasivo dell’autore dell’azione delittuosa. In conclusione, rilevano gli Ermellini, sottolineando che trattasi peraltro di accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, che i giudici di merito hanno ravvisato quel nocumento nella lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine derivante dalla pubblicazione del video che ritrae in pose di dubbio gusto la vittima sul sito menzionato.

Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-09-2015) 08-10-2015, n. 40356

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIALE Aldo – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. RAMACCI Luca – Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. MENGONI Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.A. N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 718/2013 CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA, del 18/03/2014;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 10/09/2015 la relazione fatta dal Consigliere Dott. LORENZO ORILIA;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Vito D’Ambrosio che ha concluso per l’inammissibilità;

Udito il difensore Avv. Rivellese (Sost. process.).

 

Svolgimento del processo

 

Con sentenza 18.3.2014 la Corte d’Appello di Reggio Calabria – per quanto ancora interessa in questa sede – ha confermato la colpevolezza di C.A. in ordine ai reati di trattamento illecito di dati personali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, contestato al capo B) e violenza privata continuata (artt. 81 e 610 c.p., di cui al capo D), commessi in danno di S.S..

Per giungere a tale conclusione, la Corte calabrese ha osservato che la violenza privata – consistente nell’aver costretto la parte offesa ad avere contatti informatici con lui sotto continue minacce di pubblicazione in rete di un video che la ritraeva in pose oscene – risultava dimostrata dal contenuto minaccioso delle mail inviate alla ragazza, tenuta letteralmente sotto scacco; il reato di trattamento illecito dei dati personali risultava provato dalla avvenuta pubblicazione del video su You Tube con conseguente lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine.

L’imputato – tramite il difensore – propone ricorso per cassazione con due motivi.

 

Motivi della decisione

 

1 Con un primo motivo denunzia ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’inosservanza dell’art. 610 c.p., nonchè la mancanza di motivazione sulla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di violenza privata (che il primo giudice aveva ritenuto assorbito nell’ipotesi della violenza sessuale originariamente contestata al capo C, da cui invece era stato assolto in appello). Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non ha motivato sul condizionamento psicologico della vittima, avendo omesso di indicare gli elementi di indagine idonei a sostenere la tesi accusatoria.

Ritiene insufficiente il mero stralcio di comunicazioni via mail ed evidenzia il comportamento tenuto dalla persona offesa che, lungi dal subire condizionamenti, lo fece addirittura venire allo scoperto contattandolo in rete su indicazione della Polizia Postale a cui lo aveva precedentemente denunciato.

Il motivo è infondato.

Come più volte affermato da questa Corte, il delitto di violenza privata si consuma ogni qual volta l’autore con la violenza o con la minaccia lede il diritto del soggetto passivo di autodeterminarsi liberamente, costringendolo a fare, tollerare od omettere qualcosa.

Al contrario della minaccia che ha natura formale, la violenza privata è un reato di danno, nel quale la condotta sanzionata si realizza con la coartazione della volontà altrui e l’evento lesivo si concretizza nel comportamento coartato di colui che l’ha subita (v. tra le varie, Sez. 5, Sentenza n. 5593 del 10/03/2000 Ud. dep. 12/05/2000 Rv. 216111; Sez. 5, Sentenza n. 1195 del 27/02/1998 Cc. dep. 07/05/1998 Rv. 211230; Sez. 5, Sentenza n. 9082 del 02/03/1989 Ud. dep. 03/07/1989 Rv. 181716).

La Corte d’Appello di Reggio Calabria nel caso di specie ha ravvisato gli estremi del reato dalla lettura delle mail allegate alla denunzia ed in particolare dal messaggio – di cui ha riportato il contenuto – con cui l’imputato, in caso di persistente blocco del contatto o di mancata risposta, prospettava alla ragazza gravi danni all’immagine derivanti dalla pubblicazione del video nell’ambiente ristretto di Reggio Calabria (“ne sparleranno tutti e ti macchierà per sempre”).

L’atteggiamento minaccioso del C., secondo la Corte d’Appello, consisteva nel costringere la ragazza ad intrattenere rapporti telematici, prospettandole la possibilità di divulgare il video in cui essa compariva con la gonna sollevata: in tal modo il C., approfittando della disponibilità del video e minacciandone la divulgazione, aveva indotto la donna ad intrattenere le comunicazioni coartandone la capacità di autodeterminazione tenendola “sotto scacco” (v. pag. 11 sentenza impugnata).

Trattasi, come si vede, di un percorso argomentativo giuridicamente corretto che da conto in maniera esauriente, attraverso una serie di accertamenti in fatto, della attività minacciosa posta in essere dall’imputato e della coartazione subita dalla vittima.

La sentenza impugnata non merita alcuna censura neppure sotto il profilo motivazionale anche perchè – è bene ricordarlo – il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene solo alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo. Al giudice di legittimità è infatti preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa). Queste operazioni trasformerebbero infatti la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 9923 del 05/12/2011 Ud. dep. 14/03/2012 Rv. 252349).

Piuttosto, la tesi del ricorrente non solo tende ad una alternativa ricostruzione dei fatti, ma si riferisce anche ad iniziative poste in essere dalla donna su consiglio della polizia giudiziaria dopo la presentazione della denunzia e quindi a comportamenti successivi alla consumazione del reato. Essa pertanto non coglie nel segno.

  1. Col secondo motivo il ricorrente denunzia ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l’inosservanza del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 167, nonchè la mancanza di adeguata motivazione sulla sussistenza di tutti i presupposti per ritenere concretata la fattispecie incriminatrice. Rimprovera alla Corte d’Appello di non avere motivato sul “nocumento” richiesto ai fini della punibilità della condotta, osservando che l’inserimento del video su You Tube non comportava comunque l’accesso da parte dei terzi perchè egli aveva omesso, al momento della pubblicazione sul sito, di inserire criteri di ricerca e la riprova sta nel fatto che egli, ben consapevole della impossibilità per gli estranei di visionare il video, aveva minacciato la divulgazione su Facebook.

Anche questo motivo è infondato.

Il D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167 (Codice in materia di protezione dei dati personali) così dispone:

“1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 18, 19, 23, 123, 126 e 130, ovvero in applicazione dell’art. 129, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da sei a diciotto mesi o, se il fatto consiste nella comunicazione o diffusione, con la reclusione da sei a ventiquattro mesi.

  1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarne per sè o per altri profitto o di recare ad altri un danno, procede al trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli artt. 17, 20 e 21, art. 22, commi 8 e artt. 11, 25, 26, 27 e 45, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione da uno a tre anni”.

Ciò premesso, nel reato di illecito trattamento di dati personali di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 167, il “nocumento” per la persona offesa, che nella fattispecie previgente si configurava come circostanza aggravante, e che oggi costituisce elemento essenziale del reato (cfr. sez. 3^ Sentenza n. 38406 del 9.7.2008, Fallarli) o, secondo altro orientamento, condizione obiettiva di punibilità (Sez. 3^, Ordinanza n. 7504 del 16/07/2013 Ud. dep. 18/02/2014 Rv. 259261;

Sez. 3^, Sentenza n. 17215 del 17/02/2011 Ud. dep. 04/05/2011 Rv.

249991), rende la figura criminosa inquadrabile della categoria dei reati di danno e non (più) di mero pericolo.

E’ stato precisato altresì (cfr. Sez. 5^, Sentenza n. 44940 del 28/09/2011 Ud. dep. 02/12/2011 Rv. 251449, in motivazione) che il concetto di nocumento è ben più ampio di quello di danno, volendo esso abbracciare qualsiasi effetto pregiudizievole che possa conseguire alla arbitraria condotta invasiva altrui. Nel richiedere appunto il nocumento, la legge vuole escludere dalla sfera del penalmente rilevante quelle condotte, pure intrusive, che tuttavia siano rimaste del tutto irrilevanti nelle loro conseguenze (v.

altresì, più di recente, Sez. 3, Sentenza n. 10485 depositata il 12.3.2015 non massimata).

Ora, nel caso di specie, la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dall’avvenuto inserimento nel circuito You Tube del video ritraente la S., ha desunto l’esistenza del nocumento consistente nella lesione del diritto alla riservatezza dell’immagine (v. pag.

12): trattasi di tipico accertamento in fatto, in questa sede insindacabile, rilevandosi che la censura del ricorrente si risolve ancora una volta in una critica di tipo fattuale laddove tende a sostenere l’inaccessibilità al file da parte degli utenti, circostanza peraltro indimostrata ed anzi esclusa dai giudici di merito.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

 

P.Q.M.

 

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese del grado in favore della costituita parte civile S.S., che liquida in Euro 3.500,00 (tremilacinquecento/00) oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2015