Danno tanatologico, terminale e catastrofale: i chiarimenti della Cassazione
La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 7 dicembre 2017, numero 29332, torna a pronunciarsi sul danno parentale relativamente al legame affettivo fra il nonno ed il nipote.
La fattispecie, sottoposta all’attenzione del giudicante, riguarda il decesso in conseguenza di un sinistro stradale di un soggetto sia padre che nonno, nonché la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale in favore dei figli della vittima e dei suoi nipoti.
La Corte di primo grado aveva riconosciuto il risarcimento del danno nei confronti dei nipoti conviventi con la vittima, mentre lo aveva negato per gli altri nipoti che non coabitavano con il de cuius.
La Suprema Corte, invece, ha cassato con rinvio la decisione della Corte territoriale, valorizzando il legame affettivo che unisce i due familiari e che costituisce il titolo (rectius diritto leso) fonte dell’obbligazione risarcitoria del danno parentale.
Riesaminando le proprie pronunce precedenti, la Cassazione ha precisato come non appare più condivisibile limitare la “società naturale” di cui all’art. 29 Costituzione alla sola famiglia intesa in senso stretto, posto che nella società moderna i rapporti familiari sono più o meno estesi e più o meno importanti anche prescindendo da un legame basato sulla convivenza.
La rilevanza giuridica del legame affettivo che unisce i componenti di una famiglia non può essere infatti parametrata alla sola convivenza, ma deve necessariamente essere riferita al rapporto affettivo reciproco ed alla solidarietà familiare che lega tali componenti.
Se tale è il principio su cui la valutazione dell’esistenza di un danno parentale conseguente il decesso di un familiare – nella specie il nonno – deve fondarsi, è evidente che il rapporto tra nonno e nipote deve essere riconosciuto come “legame presunto che legittima il risarcimento per la perdita familiare a prescindere dalla convivenza” .
La Suprema Corte, nel merito, ha ritenuto doversi “considerare superato il diverso orientamento richiamato dalla sentenza impugnata” ovvero il principio, illo tempore espresso dalla stessa Corte di Cassazione (ex multis la Cass. Civ., Sez. III, 9 maggio 2011 n. 10107), secondo cui il danno parentale subito da soggetti estranei al ristretto nucleo familiare è risarcibile solo ove sussista una situazione di convivenza tale da evidenziare un minimo di intimità tra le persone legate da rapporto di parentela.
Diversa poi è la qualificazione del rapporto in termini di quantum debeatur e, su tali aspetti, sarà proprio la discrezionalità e la sensibilità dell’organo giudicante a dare rilevanza al “danno” effettivamente patito, secondo le circostanze del caso concreto.
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio di diritto: in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale “da uccisione”, proposta iure proprio dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità, e ciò anche ove l’azione sia proposta dal nipote per la perdita del nonno.
Sulla base dei vari principi in materia, elaborati negli anni dalla giurisprudenza, all’erede della vittima di un incidente stradale spetta il risarcimento del danno biologico terminale e di quello morale catastrofale, ma non del danno tanatologico se il de cuius è deceduto sul colpo o subito dopo il sinistro, in quanto non c’è stato un lasso di tempo sufficiente affinché la posta risarcitoria fosse acquisito nel patrimonio del defunto.
Tale principio, espresso dapprima nella sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015, resa a Sezioni Unite, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, nella sentenza 27 settembre 2017, n. 22451.
Occorre sottolineare come in tema di risarcibilità del danno catastrofale in favore dei prossimi congiunti, nella pronuncia sopra richiamata, le Sezioni Unite hanno specificato anche che i danni non patrimoniali risarcibili alla vittima, trasmissibili “jure hereditatis”, possono distinguersi in: “danno biologico” (cd. “danno terminale”) ovvero la lesione al bene salute quale danno-conseguenza, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino al decesso.
Pertanto, l’accertamento del danno-conseguenza individuato dalla Cassazione presuppone che gli effetti pregiudizievoli si siano effettivamente prodotti, richiedendo a tal fine che, tra l’evento lesivo ed il momento del decesso sia intercorso un “apprezzabile lasso temporale”. Ciò vuol dire che se dal momento dell’evento dannoso alla morte passa un brevissimo lampo di tempo, non sarà riconosciuto il risarcimento del danno in favore dei congiunti della vittima in quanto non meritevole di tutela visto che la c.d. “morte lampo” , in dette situazioni, non produce nella sfera giuridica del danneggiato quelle conseguenze a cui l’ordinamento giuridico riconosce la risarcibilità. Ovviamente la brevità della durata dell’agonia, prima della morte, deve essere valutata caso per caso da ogni singolo giudicante, non potendo, a priori, stabilirne l’entità e i limiti.
Alla luce delle considerazioni svolte, deve ritenersi come anche il legame parentale fra nonno e nipote consente di presumere che il secondo subisca un pregiudizio non patrimoniale in conseguenza alla morte del primo. Più precisamente, per la perdita della relazione con una figura di riferimento e dei correlati rapporti di affetto e di solidarietà familiare. Tale assunto vale anche in difetto di un rapporto di convivenza, fatta salva la necessità di considerare l’effettività e la consistenza della relazione parentale in questione ai fini della liquidazione del danno.