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Prime note critiche sul caso Sea Watch 3

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Giuseppe Saccone
Straordinario di Procedura Penale – Università Telematica Pegaso

Gerardo Di Martino
Cultore di Procedura Penale – Università Telematica Pegaso

 Giudice per le Indagini Preliminari presso il Tribunale Ordinario di Agrigento, Ordinanza del 2 luglio 2019 (CC. 1 Luglio 2019), giudice Alessandra Vella (caso “Sea Watch 3”).

  • 1. La vicenda. – Il 12.06.2019 la nave Sea Watch 3, battente bandiera olandese, effettuava il soccorso di 53 persone nella c.d. Zona SAR libica, alla distanza di 47 miglia nautiche dalle coste di tale paese: la Sea Watch 3 era venuta a conoscenza – dall’aereo Calibri che effettua, a distanza, monitoraggio in mare – della presenza di una potenziale situazione di distress. Decideva dunque di dirigersi verso nord, verso il porto sicuro più vicino rispetto alla posizione del salvataggio. Nella notte tra il 13 e 14 giugno, l’imbarcazione si portava alla distanza di 17 miglia nautiche dall’isola di Lampedusa – primo porto incontrato sulla propria rotta – mantenendosi al di fuori delle acque territoriali italiane, per ivi rimanere sino alla data degli eventi contestati. Nel frattempo venivano autorizzati più sopralluoghi della nave da parte dei medici del CISOM (di stanza a Lampedusa), al fine di accertare le condizioni sanitarie dei migranti. Peraltro, nelle giornate che separavano l’arrivo al confine segnato dalle acque territoriali con la sera dello svolgimento dei fatti addebitati, dalla nave veniva effettuata, in tre momenti diversi, l’evacuazione di ventuno adulti e bambini necessitanti cure mediche. Alle ore 01.15 del 29 giugno 2019 la nave Sea Watch 3 avviava i motori e iniziava a muoversi, dirigendosi verso il Porto di Lampedusa. Alle 01:40 circa, l’unità della GDF V808 si dirigeva verso la banchina commerciale, così frapponendosi fra quest’ultima e la motonave, nel tentativo di impedire l’attracco della Sea Watch 3, che alle ore 01:45, durante le manovre di ormeggio presso la suddetta banchina, urtava l’unità militare.
  • 2. Arresto in flagranza di reato e contestazione provvisoria. – La polizia giudiziaria procedeva, indi, all’arresto in flagranza di reato del Comandante della Sea Watch 3, Carola Rackete, per violazione degli art. 1100 cod. navigazione (resistenza o violenza contro nave da guerra) e 337 cod. penale (resistenza ad un pubblico ufficiale), ponendo l’indagata agli arresti domiciliari nel Comune di Lampedusa.

Il magistrato del pubblico ministero – operato lo stralcio dei reati di cui agli art. 1100 cod. nav. e 337 c.p. (in ordine ai quali solo era stata adottata la misura pre-cautelare), dal fascicolo principale contenente la parte della investigazione relativa alla inosservanza delle disposizioni contro l’immigrazione clandestina (art. 12 e ss. del T.U. Immigrazione) – formulava richiesta di convalida dell’arresto in flagranza di reato di Carola Rackete per le contestazioni relative ai delitti di cui agli artt. 1100 cod. nav. e 337 c.p. perchè:

  1. in relazione dell’art. 1100 cod. nav, quale Comandante della motonave Sea Watch 3 … compiva atti di resistenza e di violenza nei confronti della nave da guerra “Vedetta V.808” della Guardia di Finanza. In particolare, dopo aver reiteratamente ricevuto via radio dalla Guardia di Finanza l’ordine di fermare il moto – non essendo autorizzata all’ingresso nel porto di Lampedusa – ed essendo poi stata avvicinata dalla vedetta V. della Guardia di Finanza, con attivazione dei segnali previsti dal Codice Internazionale per farla desistere dall’ingresso in porto, intraprendeva manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti dalla vedetta, azionando i motori di bordo ed indirizzando la rotta verso il porto; quindi, dopo aver fatto accesso al porto, si dirigeva verso la banchina del molo commerciale, già occupata dalla vedetta V808 ivi ormeggiata con lampeggianti e luci di navigazione accese, fino ad urtare con la propria fiancata di sinistra il fianco sinistro della motovedetta, che veniva compressa tra la motonave Sea Watch 3 e la banchina;
  2. in relazione all’art. art. 337 c.p., quale Comandante della motonave Sea Watch 3 usava violenza per opporsi ai pubblici ufficiali presenti a bordo della vedetta V.808 della Guardia di Finanza mentre compivano atti di polizia marittima, In particolare: dopo aver reiteratamente ricevuto via radio dalla Guardia di Finanza l’ordine di fermare il moto – non essendo autorizzata all’ingresso nel porto di Lampedusa – ed essendo poi stata avvicinata dalla vedetta V. della Guardia di Finanza, con attivazione dei segnali previsti dal Codice Internazionale (sequenza di lampi luminosi effettuata col faro di bordo) per farla desistere dall’ingresso in porto, intraprendeva manovre evasive ai reiterati ordini di alt imposti dalla vedetta, azionando i motori di bordo ed indirizzando la rotta verso il porto; quindi, dopo aver fatto accesso al porto, si dirigeva verso la banchina del molo commerciale, già occupata dalla vedetta V 808 ivi ormeggiata con lampeggianti e luci di navigazione accese, fino ad urlare con la propria fiancata di sinistra il fianco sinistro della motovedetta, che veniva compressa tra la motonave Sea Watch 3 e la banchina. Cosi opponendo resistenza all’equipaggio della vedetta Y. della Guardia di Finanza.
  • 3. L’ordinanza di non convalida. – Il Gip, riconosciuta la configurabilità di una esimente, non convalidava l’arresto in flagranza, rigettando, altresì, la contestuale richiesta di applicazione della misura coercitiva non custodiale del divieto di dimora nella Provincia di Agrigento.

Da un punto di vista giuridico, la configurabilità della prima ipotesi di reato prevista dall’art. 1100 cod. nav., è stata esclusa poiché, come già ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 35 del 2000, le unità navali della Guardia di Finanza possono considerarsi navi da guerra solo quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare. Nella fattispecie, al contrario, la nave della Gdf si muoveva in acque territoriali, all’interno del Porto di Lampedusa.

Quanto al reato di resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p., il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto la condotta posta in essere dal comandante della Sea Watch 3 scriminata dall’esimente prevista dall’art. 51 c.p. Quantunque ridimensionato nella effettiva portata offensiva, il fatto integra comunque la fattispecie di resistenza a pubblico ufficiale poiché – si sostiene nell’ordinanza cautelare – “… l’avere posto in essere una manovra pericolosa nei confronti dei pubblici ufficiali a bordo della motovedetta della Guardia di Finanza, senz’altro costituente il portato di una scelta volontaria seppure calcolata, permette di ritenere sussistente il coefficiente soggettivo necessario ai fini della configurabilità concettuale del reato in discorso”. Tuttavia la condotta delittuosa non costituisce reato, avendo il Comandante della nave agito nell’adempimento di un dovere (art. 51 c.p.) che, secondo la ricostruzione operata dal giudice per le indagini preliminari, deriva da fonti giuridiche internazionali ed interne:

  • la Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, detta anche UNCLOS (United Nations Convention of the Law Of the Sea), ratificata e resa esecutiva in Italia con Legge 2 dicembre 1994, n. 689;
  • la Convenzione SOLAS (Safety Of Life At Sea) firmata a Londra nel 1974 e resa esecutiva in Italia con Legge 23 maggio 1980 nr. 313;
  • la Convenzione SAR (Search and Rescue, detta anche di Amburgo) sulla ricerca ed il soccorso in mare, adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 e resa esecutiva in Italia con Legge 3 aprile 1989 n. 147;
  • l’art. art. 10 ter del dlgs 286/98 (T.U. Immigrazione).

In sostanza, tutte le Convenzioni internazionali – immediatamente applicabili nell’ordinamento interno in virtù di quanto disposto dagli artt. 10 e 117 Cost.) – impongono al comandante di una nave, anche di diversa bandiera, di prestare soccorso, senza indugio, a tutte le navi in difficoltà ed ai naufraghi che versino in situazione di pericolo, dei quali s’impone il trasporto in luogo sicuro. Quanto al diritto interno, poi, assume particolare rilievo per la valutazione di liceità della condotta dell’indagata l’art. 10 ter del T.U. Immigrazione, secondo cui “lo straniero … giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi”.

E’ proprio il combinato disposto delle richiamate disposizioni – internazionali ed interne – che costituisce, secondo il Gip, il fondamento giuridico dell’obbligo di assistenza, in presenza del quale la condotta di resistenza a pubblico ufficiale ex art. 337 c.p. va ritenuta scriminata dall’avere il capitano della nave Sea Watch 3 agito con la finalità dapprima di trarre in salvo i naufraghi e poi di condurli nel porto sicuro più vicino.

  • 4. Prime osservazioni sulla (il)legittimità del provvedimento. – La scriminante dell’adempimento di un dovere riconosciuta sussistente dal Gip, soffre di eterogeneità rispetto agli addebiti elevati dal magistrato del pubblico ministero, di irrilevanza in ordine alle richieste formulate dall’Ufficio di Procura e di infondatezza, nel complesso, in relazione al necessario rapporto di stretta compenetrazione tra condotta ed esimente.

Il ragionamento non può che muovere, tra tanti dubbi, da una certezza: lo stato di necessità, con particolare riferimento all’integrità individuale ed al pericolo di vita per i (residui) migranti a bordo della Sea Watch 3, è categoricamente escluso. La stessa ordinanza non ne fa menzione, posto che non risultano accertati casi di concreto ed attuale pericolo (le persone in difficoltà erano già state evacuate nei giorni precedenti: circa 21, in tre distinti momenti). Il Gip, invece, ritenuta integrata la violazione del precetto di cui all’art. 337 c.p., ha escluso l’antigiuridicità dell’azione per avere il comandante della Sea Watch 3 agito nell’adempimento di un dovere, individuato nell’obbligo – discendente dalle fonti internazionali ed interne – di soccorrere i naufraghi e di condurli in un porto sicuro.

La circostanza di fatto ritenuta scriminante (soccorso dei naufraghi e conduzione in porto sicuro) è evidentemente eterogenea, oltre che antecedente, rispetto alla verificazione degli eventi posti a base della contestazione di resistenza a pubblico ufficiale, configurata solo rispetto all’ultimo segmento dell’azione del comandante della Sea Watch 3, allorquando, giunto nel porto e resosi conto che una motovedetta della Gdf impediva l’attracco – e, dunque, lo sbarco dei migranti – manovrava in modo da far urtare la nave contro l’unità militare che subiva lo schiacciamento contro il molo.

Che l’esimente, per come configurata dal Gip, risulti oltre che eterogenea rispetto al fatto-reato, anche irrilevante in relazione alle richieste dell’Accusa, è ulteriormente confermato dal fatto che alcuna disposizione – internazionale piuttosto che interna – impone lo sbarco come dovere ulteriore rispetto al soccorso e trasporto dei naufraghi in porto sicuro. Anzi, la più volte citata Convenzione SAR (o di Amburgo) sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979 obbliga (unicamente) gli Stati parte a “… garantire che sia prestata assistenza ad ogni persona in pericolo in maresenza distinzioni relative alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze nelle quali tale persona viene trovata” (capitolo 2, art. 2.1.10) ed a “… fornirle le prime cure mediche o di altro genere ed a trasportarla in un luogo sicuro” (capitolo 1, art. 1.3.2).

Trasporto dei naufraghi in porto sicuro e sbarco delle persone soccorse rappresentano, dunque, entità fattuali ontologicamente distinte e diversamente considerate dal punto di vista giuridico: al generale “dovere di soccorso” non corrisponde uno speculare “dovere di sbarco”.  Sicchè la manovra compiuta, volontariamente e consapevolmente, dal comandante della Sea Watch 3 al fine di consentire lo sbarco dei migranti – manovrava che determinava l’urto della nave contro l’unità militare della Gdf che, nel tentativo di impedire l’attracco, subiva lo schiacciamento contro il molo – avrebbe potuto essere (diversamente) scriminata solo nell’ipotesi, esclusa nel caso di specie, di stato di necessità determinato da attuale e concreto pericolo di vita per gli occupanti della nave (situazione in cui i valori in gioco avrebbero fatto propendere in ogni caso per la tutela della vita).

Parimenti criticabile si profila l’affermazione del Gip secondo cui l’obbligo di attracco e di sbarco sarebbe rinvenibile nella disposizione di cui all’art. 10 ter del d.lgs. n. 286/98 (T.U. Immigrazione): “… lo straniero … giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi”. La disposizione, infatti, non disciplina le manovre di attracco per lo sbarco (momento in cui, al contrario, si è concretizzata l’azione delittuosa di resistenza a p.u. da scriminare), bensì regolamenta la destinazione dello straniero che si trova già sul territorio nazionale perchè giunto(vi) a seguito di operazioni di salvataggio in mare. Lo stesso Gip, resosi conto della difficoltà argomentativa sul punto, è costretto a dedicare un intero capoverso alla questione: “… il descritto segmento finale della condotta dell’indagata, come detto integrativo del reato di resistenza a pubblico ufficiale, costituisce il prescritto esito dell’adempimento del dovere di soccorso, il quale – si badi bene – non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro…”.

Il tentativo di estendere il confine dell’obbligo giuridico di adempiere fino al segmento finale della condotta dell’indagata di resistenza a pubblico ufficiale, non sortisce, però, l’effetto sperato. Anzi, spinge il ragionamento a conclusioni opposte: se è vero, come affermato dal Gip, che il dovere di soccorso non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro, rasenta l’ovvietà affermare che, una volta condotti nel porto più sicuro cessa il dovere e con esso anche l’efficacia dell’esimente. Senza considerare, poi, che in tale ultima situazione devono trovare piena applicazione le disposizioni interne che regolamentano l’ingresso degli stranieri sul territorio nazionale, disposizioni alle quali potrebbe derogarsi solo in presenza di uno stato di necessità determinato da attuale e concreto pericolo di vita per gli occupanti della nave, situazione perentoriamente esclusa nel caso di specie.

Da ultimo la pretesa di applicare l’art. 51 c.p. alla condotta di resistenza a p.u., per come posta in essere, si rivela anche priva di fondamento. A parte la considerazione che, una volta in porto, il luogo sicuro era stato raggiunto già prima dell’urto/schiacciamento contro il molo del natante della Gdf, resta il fatto che alcuna norma potrà mai imporre un obbligo di fare che legittimi, in assenza di attuale e concreto pericolo per beni preminenti quali la vita ovvero l’integrità individuale, l’attentato –  ancorchè “modesto” – all’incolumità piuttosto che alla stessa vita di altre persone (nel caso, l’equipaggio della motovedetta della Gdf): si perverrebbe al paradosso per il quale, adempiendo al dovere di trasportare persone non (più) in pericolo, sarebbe imposto dall’Ordinamento il sacrificio di beni giuridici prevalenti rispetto a quelli tutelati mendiate il ricorso all’esimente.

Nè può seriamente contestarsi l’impossibilità di configurare la scriminante ex art. 51 c.p. a fronte della cd. condotta lecita alternativa: anche prescindendo dalle teorie sulla natura dell’antigiuridicità e sulla distinzione, nel novero delle esimenti, tra scriminanti, cause di giustificazione e di non punibilità, appare logicamente impensabile che, potendo praticare la via alternativa lecita (fermarsi, invece che deliberatamente urtare/schiacciare la motovedetta), in assenza di compromissione di beni giuridici gerarchicamente superiori, si consenta la commissione di un reato in danno di chi (l’equipaggio della motovedetta della Gdf), in quel medesimo contesto spazio-temporale, versa in una situazione di adempimento – a sua volta – di un dovere/ordine, ponendolo addirittura in una condizione di pericolo per la propria incolumità.