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DIRITTO CIVILE: Il delicato tema dell’esistenza di un “diritto a non nascere se non sani” al vaglio delle Sezioni Unite.

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

DIRITTO CIVILE: Il delicato tema dell’esistenza di un “diritto a non nascere se non sani” al vaglio delle Sezioni Unite.

Già da diversi lustri nel nostro ordinamento giuridico si discute sulla tematica, di estrema delicatezza e di grande importanza, del cd. risarcimento del danno da nascita indesiderata. Nell’affrontare la suddetta problematica, l’Interprete si ritrova a dover constatare l’ontologico limite del diritto allorquando questo si intersechi con tematiche antropologiche e metafisiche. Difatti, il dibattito sull’esistenza di un “diritto a non nascere se non sano”  -lungi dall’essere una mera disquisizione giuridica- è una questione trasversale che ingloba settori quali la bioetica, la teologia, la filosofia, l’equità e la solidarietà.

Prima di entrare in medias res, appare dunque doveroso premettere che in questi casi il diritto, da solo, non può mai offrire una risposta dirimente ed efficace, risultando pur sempre fallace e limitato dinanzi ad interrogativi esistenziali cotanto grandi.

Stante il profondo spessore della questione nonché il netto contrasto sul punto, il 23 febbraio 2015 la III Sezione della Corte di Cassazione (con l’ordinanza n. 3569) ha rimesso la questione al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. Questi i punti focali dell’ordinanza di rimessione: la responsabilità del medico per omessa diagnosi sulla malformazione congenita del feto; l’onere probatorio gravante sulla gestante e la legittimazione attiva del nato malforme a richiedere il risarcimento del danno al sanitario (http://www.gazzettaforense.it/news/diritto-e-procedura-civile/diritto-civile-danno-da-nascita-indesiderata-sollecitato-lintervento-delle-sezioni-unite/).

Il Supremo Consesso, valutata la necessità di un intervento chiarificatore in una materia tanto sensibile quanto complessa, si è pronunciato con la sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015.

Sull’annosa questione del riparto dell’onere della prova si erano contrapposti due orientamenti: l’uno secondo cui, statisticamente, corrisponde a regolarità causale che la gestante -resa edotta delle malformazioni del feto- si determini ad abortire; l’altro secondo cui grava sulla donna dimostrare che, laddove fosse informata di suddette malformazioni, deciderebbe di ricorrere all’aborto (sempreché ricorrano tutti i presupposti ex art. 6 L. 194/1978; diversamente opinando, l’aborto integrerebbe un reato).

La Corte di nomofilachia ha ritenuto che il siffatto thema probandum sia complesso e composito, constando dell’ anomalia del nascituro, dell’omessa informazione da parte del sanitario, del grave pericolo per la salute psicofisica della donna e della scelta abortiva di quest’ultima. Esso involge, dunque, anche un aspetto di natura psichica, vertendo su un’intenzione della donna che è molto difficile da provare.

Alla luce di tali ragioni, le Sezioni Unite hanno ritenuto che grava sulla gestante l’onere di provare la volontà abortiva sebbene questa possa essere assolta mediante presunzioni semplici. In tal caso, l’onere probatorio -senza dubbio gravoso, vertendo su un’ipotesi e non su un fatto storico- può essere assolto tramite dimostrazione di altre circostanze, dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all’esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare.

Tuttavia, la vera vexata quaestio è rappresentata dalla legittimazione o meno del nato malforme a chiedere il risarcimento del danno nei confronti del sanitario. Tale problema presuppone ed ingloba anche quello della capacità giuridica del nascituro. Trattasi, infatti, di verificare la legittimazione di colui il quale, al momento della condotta del medico, non era soggetto di diritto ex art. 1 c.c. A tal uopo, si è parlato di cd. diritto adespota.

Invero, questo punto non risulta un ostacolo insuperabile in quanto già da tempo la giurisprudenza ha evidenziato che possono aversi degli effetti cd. diacronici dell’illecito, essendo ben possibile che tra la condotta e l’evento intercorra un lasso temporale. Peraltro, gli Interpreti -sottolineando il relativismo di tali concezioni- hanno affermato che bisogna emanciparsi dalle categorie metafisiche, riconoscendo il concepito quale oggetto di tutela.

Il problema, pertanto, non è dato dall’anteriorità del fatto illecito alla nascita, ben potendovi essere soluzione di continuità tra causa ed evento. Il fulcro concerne il nesso eziologico perché non si tratta di malformazioni causate direttamente dal medico bensì di malformazioni genetiche, ragion per cui il sanitario è solo l’autore mediato del fatto nel senso che a questi può imputarsi la mancata diagnosi (peraltro, non sempre immediata e lapalissiana) ma non già l’aver cagionato la malformazione vera e propria.

Ciò posto, è agevole comprendere che non sussiste un nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l’evento di danno. Il medico che non informa adeguatamente la gestante sulle malformazioni del feto va ad incidere sulla libertà di autodeterminazione della donna (ossia sulla sua scelta se abortire o meno) ma non certo sulla causazione della malformazione. Stando così le cose, il danno-conseguenza sarebbe la nascita. Dunque, il nato malforme dovrebbe agire nei confronti del medico in quanto questi, omettendo la diagnosi, non ha consentito alla gestante di ricorrere all’aborto.

Ciò vorrebbe significare che il nostro ordinamento sarebbe proiettato verso la “non vita” dunque conoscerebbe il cd. “diritto a non nascere se non sano”. Sarebbe come dire che la vita di un bambino affetto da una disabilità valga meno di quella di un bimbo sano. Vorrebbe significare che essa rappresenti un danno. Peraltro, stando così le cose, dovrebbe avanzarsi medesima richiesta risarcitoria anche nei confronti della madre, la quale -una volta resa edotta delle malformazioni congenite- non si sia determinata ad abortire.

Ma il nostro ordinamento non tutela la “non vita” né può postularsi che la vita di un bambino affetto da handicap sia meno degna di essere vissuta rispetto a quella di un bambino sano. Sarebbe quasi come contemplare un cd. diritto estremo alla felicità, come icasticamente lo ha definito la Suprema Corte.

Oltre al fatto di postulare un’irruzione del diritto in un campo da sempre rimastogli estraneo, mediante patrimonializzazione dei sentimenti, in una visione panrisarcitoria dalle prospettive inquietanti.

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Anna Sofia Sellitto
Giudice penale presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università “Federico II” in cinque anni accademici, discutendo una tesi in diritto penale. Presso il medesimo Ateneo, si è specializzata in professioni legali ed ha seguito il master-corso di perfezionamento in Diritto dell’Unione europea. Ha svolto la pratica forense presso l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Napoli ed ha conseguito il titolo di avvocato. Ha frequentato diversi corsi di approfondimento post lauream ed ha collaborato alla redazione del Codice di procedura civile 2017 di M. Santise, edito da Giappichelli.