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Rapporto tra sezione specializzata in materia di impresa e altre sezioni dello stesso ufficio giudiziario

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Palais de Justice Rome Cour suprême de cassation

Tribunale Napoli – Sezione Specializzata in materia d’Impresa – 31 maggio 2016 – Pres. Arduino Buttafoco – Est. Enrico Quaranta

Rapporto tra sezione specializzata in materia di impresa e altre sezioni dello stesso ufficio giudiziario – Questione di competenza e non di mera ripartizione interna degli affari – Competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa – Contratti pubblici di appalto di lavori, servizi o forniture – Assunzione del rischio di gestione – Rilevanza comunitaria – Riferimento al codice degli appalti – Criterio quantitativo e criterio qualitativo negativo.

Il Tribunale di Napoli, quale sezione specializzata in materia d’impresa, ha espresso in vari arresti il convincimento che il suo rapporto con le altre sezioni dello stesso ufficio giudiziario, così come ovviamente quello con altro Tribunale, sia da qualificare in termini di competenza.

A fondamento delle pronunzie ha anzitutto invocato il dato testuale della norma istitutiva: ed invero il legislatore, nell’intitolare le rubriche degli artt. 3 e 4 del d. lgs. n. 168/2003, come modificati dal d. l. n. 1/2012, conv. con mod. in l. n. 27/2012, rispettivamente competenza per materia delle sezioni e competenza territoriale delle sezioni e nel precisare nel successivo art. 5 le competenze del presidente della sezione (nelle materie di cui all’art. 3, le competenze riservate dalla legge al Presidente del tribunale e al Presidente della corte di appello spettano al Presidente delle rispettive sezioni specializzate), ha inteso, sia pure implicitamente, sottolineare l’autonomia della sezione. In precedenza, del resto, con riferimento alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale, parte della dottrina e della giurisprudenza avevano equiparato dette sezioni alle sezioni specializzate agrarie, rilevando l’ammissibilità del ricorso per regolamento di competenza anche in ipotesi di contrasto tra sezione specializzata e tribunale presso il quale la stessa era costituita.

 

La posizione perorata dalla sezione in materia d’impresa è stata peraltro di recente sostenuta dalla Corte di Cassazione (ord. n. 14369 del 24.7.2015} secondo cui, in primo luogo, deve considerarsi che il legislatore, nel delineare i compiti assegnati alle sezioni specializzate espressamente si riferisce a quelli attribuiti sotto il profilo della competenza, diversamente da quanto stabilito, in ambito terminologico, con riferimento al giudice del lavoro, al quale è riconosciuta un’autonoma funzione nell’ambito della competenza del tribunale (art. 413 c.p.c.; competenza del Tribunale, in funzione di giudice del lavoro), in seguito all’istituzione del giudice unico di primo grado. Per altro verso, secondo la Corte, la circostanza che le sezioni specializzate non siano dislocate presso ogni distretto, ma solo presso alcuni di essi, rende palese che il rapporto fra le sezioni specializzate e le altre non sia configurabile come rilevante – in quanto regolante le modalità di ripartizione di affari – all’interno del medesimo ufficio. Sotto tale aspetto, potrebbe, invero, determinarsi, con inammissibile asimmetria del sistema, che la natura del rimedio muterebbe a seconda che la pronuncia di declinatoria di competenza sia emessa dal giudice del lavoro, o da altro giudice ordinario, a favore della sezione specializzata in materia dì impresa, nell’ambito di un Tribunale presso il cui distretto non è dislocata alcuna sezione specializzata, ovvero in un Tribunale nel cui distretto tale sezione sia invece istituita, con la conseguenza che, in tale secondo caso, si verterebbe in un’ipotesi di ripartizione dì affari all’interno di un unico ufficio e nell’altro di questione proponibile con il rimedio del regolamento di competenza. Ciò condurrebbe a privare le parti ed il giudice degli strumenti di cui agli artt. 42 e ss. c.p.c. soltanto in alcuni casi e non in altri sostanzialmente equiparabili, con palese violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost. Infine, evidenzia la Corte, deve osservarsi anche che lo stesso legislatore qualifica come “specializzate” le sezioni che compongono il Tribunale delle imprese, con un aggettivo che è, significativamente, quello utilizzato dall’art. 102, 2° comma, Cast., e che connota anche le sezioni cui sono affidate le controversie agrarie, le cui attribuzioni nel senso di competenza per materia in senso proprio sono pacifiche. Il richiamato art. 102, comma 2, Cast., d’altro canto, prevede, poi, espressamente che le “sezioni specializzate” che possono essere istituite presso gli organi ordinari possano essere composte “anche” con la partecipazione di cittadini idonei, estranei alla magistratura e non certo “solo” con tale partecipazione, il che vale ad escludere che le sezioni specializzate in materia di impresa possano essere differenziate da quelle agrarie solo perché composte solo da giudici togati. Ed invero, si tratta in entrambi i casi di sezioni costituite per legge, per far fronte alla complessità e difficoltà di determinate materie e per soddisfare l’esigenza di una spedita trattazione dei procedimenti affidati a tali sezioni. Proprio in ragione di ciò, tali sezioni devono essere composte da “magistrati dotati di specifiche competenze” (art. 2, comma l, d.lgs. 168/2003).

 

A fronte di una giurisprudenza che appare tuttora controversa (anche in sede di legittimità) il Tribunale ritiene di aderire al convincimento secondo cui quella del rapporto tra sezione specializzata in materia d’impresa e sezioni ordinarie dello stesso ufficio, al pari di ciò che avviene nel rapporto tra dette sezioni ed altri Tribunali, integri questione involgente la “competenza” e non il mero riparto interno degli affari. A sostegno di tale tesi in conclusione depongono (come sostenuto da autorevole dottrina):

– il riferimento al termine competenza da parte del legislatore, nel momento in cui delinea l’ambito dei poteri attribuiti alle sezioni specializzate ed al suo presidente; l’utilizzo da parte dello stesso legislatore di un’espressione (quello di sezioni “specializzate”) rinvenibile nel dettato dell’art. 102 Cast. (“Non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura”) e riferito alle sezioni cui è affidata la competenza a trattare le controversie in materia agraria;

– la fonte istitutiva delle sezioni specializzate (la legge) e di quelle costituenti pacificamente articolazioni di uno stesso tribunale (provvedimenti organizzativi relativi alla creazione di sezioni fallimentari o di sezioni lavoro all’interno dell’ufficio);

– la normale e possibile attribuzione anche a giudici specializzati (quali i componenti delle sezioni agrarie) anche di controversie ordinarie;

– la chiara volontà del legislatore di affidare a magistrati dotati di particolare competenze le controversie previste dall’art. 3 cit., facilmente eludibili nell’ipotesi di configurare i rapporti tra le sezioni specializzate e quelle ordinarie in termini di mere articolazioni interne;

– l’orientamento di quella giurisprudenza che ha ritenuto ravvisabile un profilo attinente alla competenza solo laddove la diversità della regolamentazione del processo non attenga solo al rito, ma appunto a caratteristiche particolari della sezione che, per le sezioni specializzate in materia d’impresa potrebbe essere individuate, oltre che nei riferimenti testuali alla competenza nella normativa istitutiva, nell’essere la composizione delle medesime peculiare (il riferimento è alle attitudini richieste per farne parte) ovvero nell’estendersi la relativa competenza territoriale al di fuori del normale ambito circondario sino a livello ultra distrettuale.

 

Non rientra nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, ai sensi del D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, art. 3, c. 2, lett. t) come modificato dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 2, c.a 25, lett. d), conv. con modif. dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, il contratto tra un Ente pubblico – nel caso di specie, un Comune – ed un imprenditore, il quale, indipendentemente dal nomen iuris attribuito dalle parti (nella specie, “appalto”), si risolva invece in una concessione, in quanto il rischio di gestione nel quale incorre l’amministrazione aggiudicatrice sia assunto integralmente o in misura significativa dalla controparte contrattuale; e dovendo, al contrario, configurarsi un appalto pubblico di servizi, come tale devoluto – all’ulteriore condizione della sua rilevanza comunitaria, da verificarsi però solo una volta affermata la qualificazione del contratto come appalto – alla competenza della detta sezione specializzata, quando il contratto non solo riguarda servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, ma soprattutto, neppure comportando il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione, quando non determina, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione ad opera della controparte della pubblica amministrazione. (Giancarlo Borriello) (riproduzione riservata).

 

La legge istitutiva del tribunale delle imprese (che ha portato all’art. 3 del D.lgs. 168/2003 nel testo appena riportato) nell’operare rinvio ad una nozione contenuta in altro settore dell’ordinamento, non poteva che riferirsi – in ordine al concetto di contratti di appalto rilevanza comunitaria – a quanto stabilito al riguardo dalla legislazione all’epoca vigente. Il riferimento è, nello specifico, al cd. codice degli appalti (D.Igs. n. 163/2006), che ai sensi dell’art. 3, comma 16, stabilisce ancor oggi che «i contratti “di rilevanza comunitaria” sono i contratti pubblici il cui valore stimato al netto dell’imposta sul valore aggiunto (i. v. a.) è pari o superiore alle soglie di cui agli articoli 28, 32, comma 1, lettera e), 91, 99, 196, 215, 235, e che non rientrino nel novero dei contratti esclusi»; al successivo comma 18, l’articolo specifica altresì che «i “contratti esclusi” sono i contratti pubblici di cui alla parte I, titolo II, sottratti in tutto o in parte alla disciplina del presente codice, e quelli non contemplati dal presente codice»; di poi, ai sensi dell’art. 253, comma l, che «fermo quanto stabilito ai commi 1-bis, 1-ter, 1-quater, e 1-quinques, le disposizioni di cui al presente codice si applicano alle procedure e ai contratti i cui bandi o avvisi con cui si indice una gara siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore, nonché, in caso di contratti senza pubblicazioni di bandi o avvisi alle procedure e ai contratti in cui, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte».

Il legislatore di settore offre quindi due elementi per individuare i contratti che qui interessano:

(i) un criterio quantitativo, in termini di valore dell’appalto (quale suo importo netto a base d’asta), mediante la fissazione soglie, periodicamente aggiornate dalla normativa di carattere secondario, prevista dall’art. 248 del codice, di recepimento delle disposizioni comunitarie adottate volta per volta in proposito; (ii) un criterio qualitativo negativo, in termini di non appartenenza all’ambito dei cd. contratti esclusi. Relativamente al secondo di tali requisiti, il codice chiarisce che contratti esclusi sono appunto quelli che non sono regolati totalmente dalle sue disposizioni, che viceversa si applicano – nella relativa interezza – alle fattispecie previste dal riferito art. 253, comma 1. Fatte queste precisazioni, ad avviso del Tribunale poco conta se a sua volta la nozione dei contratti di appalto di rilevanza comunitaria preesistesse al D.lgs. 163/2006.