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LA VENDITA DI UN BENE IMMOBILE PRIVO DELLE CERTIFICAZIONE URBANISTICHE

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Il diritto vivente è lo specchio di ciò che accade sul piano empirico fattuale. Ed infatti, nel mentre il mercato immobiliare torna in auge, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione intervengono per far chiarezza sulla natura giuridica della nullità che affligge gli atti traslativi tra vivi con i quali vengono trasferiti i diritti reali su immobili manchevoli della dichiarazione dell’alienante sui titoli abilitativi e concessori.

Per meglio comprendere la questione ermeneutica sottoposta al vaglio del massimo organo della nomofilachia dobbiamo rispondere a due prodromici quesiti:

  1. Se è commerciabile un bene immobile in cui sussiste difformità della costruzione realizzata rispetto al titolo edificatorio e cosa accade se l’atto di compravendita è privo delle certificazioni urbanistiche (licenza, concessione o permesso di costruire);
  2. Il tipo di tutela da riconoscere all’acquirente che acquista un immobile difatti abusivo.

Con riferimento al primo quesito è necessario sottolineare che a fronte di un filone legato ad un’interpretazione formale della normativa (con particolare riferimento agli art. 1350; artt. 1470 ss.; artt. 1537 ss. c.c. da leggere in combinato disposto con gli artt. 17 e 40 L. 47/1985 e il successivo art. 46, D.P.R. 380/2001) – in cui viene comminata la sanzione della nullità agli atti tra vivi con i quali vengono trasferiti i diritti reali su immobili, ove essi semplicemente non contengano la dichiarazione dell’alienante da cui risultino gli estremi della concessione edilizia dell’immobile, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria – si contrappone una tesi di natura sostanzialistica, in virtù della quale la nullità prevista dalle norme indicate in precedenza deriverebbe non soltanto dall’assenza delle dichiarazioni del venditore ma anche dalla difformità tra il bene venduto ed il progetto assentito. In particolare, per le teoretiche sostanzialistiche, il contratto avente ad oggetto un bene non corrispondente ad un corretto sviluppo del territorio – cosi come stabilito dalla regolamentazione urbanistica – è affetto da nullità virtuale per violazione della normativa urbanistica diretta a tutelare la certezza dei traffici giuridici evitando di far circolare immobili irregolari.

Le Sezioni Unite, a risoluzione di contrasto, con sentenza del 22 marzo 2019, n. 8230, hanno affermato che la nullità comminata dalle norme in questione va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art. 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendosi intendere, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve essere riferibile, proprio, a quell’immobile.

Ne consegue che in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico il contratto è valido a prescindere al profilo della conformità o della difformità della costruzione.

La spiegazione scientifica fornita dalla Sezioni Unite si rinviene nel fatto che il profilo della conformità esula dal perimetro della nullità virtuale, in quanto in ossequio al principio generale secondo cui le norme che, ponendo limiti all’autonomia privata e divieti alla libera circolazione dei beni, sanciscono la nullità degli atti debbono ritenersi di stretta interpretazione e non possono essere applicate, estensivamente o per analogia, ad ipotesi diverse da quelle espressamente previste.

In realtà, è proprio tale ragionamento che può prestare il fianco a critiche fondate, giacché è noto che la disciplina delle nullità virtuali – di cui al primo comma dell’art. 1418 c.c. – è diretta ad inficiare atti di autonomia privata contrari a norme imperative che si pongono a tutela di interessi superindividuali. Di sicuro rispondono ad esigenze di interesse pubblico le norme sull’edilizia che si occupano di salvaguardare la compatibilità del bene compravenduto con il corretto sfruttamento del suolo pubblico.

In relazione al secondo quesito, la Suprema sostiene che il contemperamento tra le esigenze di tutela dell’acquirente e quelle di contrasto dell’abusivismo, in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e costruzione, si realizza nel fatto che l’acquirente potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica senza essere esposto all’azione di nullità, con conseguente perdita di proprietà dell’immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato.

In conclusione, l’interesse superindividuale ad un ordinato assetto di territorio resta salvaguardato dalle sanzioni approntate dall’ordinamento e, nel caso degli abusi più gravi, dal provvedimento ripristinatorio della demolizione, fatta ovviamente salva la possibilità per l’acquirente di agire per la risoluzione e il risarcimento (ndr. a meno che, in virtù del principio di autoresponsbilità, la difformità non si palesi in maniera lapalissiana nella fase precontrattuale…aggiungerei…).