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Diritto Tributario. Prelievi bancari, non costituiscono ricavi in nero anche se il professionista non riesce a giustificarli.

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Diritto Tributario. Prelievi bancari, non costituiscono ricavi in nero anche se il professionista non riesce a giustificarli.

A cura di Ascanio Castaldo

Al professionista si esclude la presunzione con la quale l’Ufficio – in mancanza di riscontro nelle scritture contabili delle movimentazioni bancarie sui conti correnti intestati allo stesso  professionista e non giustificati da quest’ultimo – rettificava il reddito di professione, collegando tali prelievi a costi produttivi di ricavi non dichiarati.

Sia la Commissione Tributaria Provinciale di Milano in primo grado e successivamente la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in appello accoglievano parzialmente il ricorso del Contribuente, affermando che, ai fini della rideterminazione del reddito, hanno rilevanza i versamenti sul conto corrente bancario rimasti privi di giustificazione e di riscontro nella scritture contabili, mentre, nel caso di specie, trattandosi di conto corrente cointestato, non potevano considerarsi come costi non contabilizzati, mancando le prove certe della riconducibilità di dette operazioni al contribuente.

La Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei Giudici di merito, precisando che la mancata considerazione dei prelievi dal conto corrente va fondata non sulla contestazione del conto corrente, ma sul diverso trattamento riservato ai titolari di reddito di lavoro autonomo. Proprio la Corte Costituzionale con la sentenza n.228 del 2014 ha affermato l’illegittimità costituzionale della presunzione legale, nella parte in cui estende ai compensi dei lavoratori autonomi, la presunzione che il prelevamento dal conto corrente bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo non dichiarato.

Cass. Civ., V sez., 6 marzo 2015, n. 4585

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6767-2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.G.S.M.;

nonchè da:

– intimata –

Z.G.S.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ALBINI CARLO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO BOCCHIOLA giusta delega in calce;

– controricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 29/2009 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositata il 17/02/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/01/2015 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO;

udito per il controricorrente l’Avvocato ALBINI che si riporta al controricorso e al ricorso incidentale e insiste per il rigetto del ricorso principale e accoglimento incidentale;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale per quanto di ragione, accoglimento 3 motivo di ricorso incidentale, rigetto altri motivi.

 

Svolgimento del processo

 

Con avviso di  accertamento  notificato il 23.12.2005 l’Agenzia delle Entrate determinava il reddito relativo all’anno 2001 della contribuente Z.G.S., esercente attività di fisioterapista, in 212.293,74 Euro, a fronte di redditi dichiarati per 18.828,46 Euro.

La rettifica veniva effettuata sulla base delle risultanze delle movimentazioni dei conto  correnti  bancari, i cui versamenti e prelievi erano rimasti privi di giustificazione.

La CTP di Milano accoglieva parzialmente il ricorso della contribuente determinando il reddito imponibile in 79.213,68 Euro.

La CTR della Lombardia confermava la sentenza di primo grado, respingendo sia l’appello principale dell’Agenzia che quello incidentale della contribuente.

La CTR , in particolare, affermava che alla rideterminazione del reddito imponibile dovessero concorrere tutti i versamenti per un ammontare di L. 116.922.074, importo già depurato del compenso per lavoro dipendente del coniuge, di cui il contribuente non aveva provato una diversa giustificazione.

Rilevava, inoltre, che pur non essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati dai  conti  corrente effettuati da un imprenditore siano stati destinati all’esercizio dell’attività d’impresa e debbano quindi essere considerati in termini di reddito, nel caso di  conti   correnti  cointestati, quale quello in esame, i prelevamenti non possano considerarsi come costi non contabilizzati, mancando le prove certe della riconducibilità alla ricorrente.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, l’Agenzia delle Entrate. La contribuente resiste con controricorso e propone altresì ricorso incidentale.

 

Motivi della decisione

 

Conviene anzitutto esaminare l’eccezione pregiudiziale sollevata dalla contribuente che deduce l’inammissibilità, nullità o improcedibilità del ricorso dell’Agenzia in quanto notificato presso un indirizzo diverso da quello in cui il domiciliatario aveva lo studio.

L’eccezione non ha pregio poichè la costituzione della contribuente ha sanato, con efficacia ex tunc, la dedotta nullità della notifica, per raggiungimento dello scopo.

E’ infatti nulla, e non inesistente, la notificazione eseguita in luogo e a soggetto diversi da quelli indicati nella norma processuale, ma aventi sicuro riferimento al destinatario dell’atto, quale la notificazione effettuata a procuratore costituito presso un indirizzo diverso da quello indicato come domicilio (Cass. 18238/2012).

E’ del pari infondata l’ulteriore eccezione di inammissibilità e improcedibilità del ricorso, sollevata dalla contribuente in ragione dell’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia, disattesa dalla CTR, per mancanza della delega conferita dal Direttore dell’Agenzia, e conseguente passaggio in giudicato del capo della sentenza di primo grado che era stato impugnato dall’Agenzia.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10 e art. 11, comma 2, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio all’ufficio locale dell’agenzia delle entrate nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore o da altra persona preposta al settore competente, da intendersi con ciò stesso delegata in via generale, sicchè è validamente apposta la sottoscrizione dell’appello dell’ufficio finanziario da parte del preposto al settore competente, anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza (Cass. 6691/2014).

Nel caso di specie non è stata specificamente dedotta, nè tanto meno provata dal contribuente, l’usurpazione da parte del funzionario dell’Agenzia del potere d’impugnare la sentenza.

Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denunzia la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e dell’art. 1854 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), formulando il seguente quesito di diritto:

“Dica codesta Corte se il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 anche in fattispecie di  conti   correnti cointestati al contribuente e ad altro soggetto, impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti, salvo che il contribuente non fornisca la prova specifica della natura, della causale e della riferibilità ad altro cointestatario dei singoli versamenti e prelevamenti, talchè è errata la sentenza della CTR la quale, in accoglimento in parte qua del ricorso di primo grado del contribuente, ha statuito che “per i prelevamenti, nel caso di  conti   correnti  cointestati, mancando le prove certe della paternità in capo alla ricorrente non si possono ritenere costi non contabilizzati”.

Con il secondo motivo si denunzia contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5) tra la statuizione della sentenza della CTR che ha considerato quali ricavi i versamenti effettuati dalla contribuente sul conto corrente e quella secondo cui è stata esclusa la rilevanza dei prelevamenti, mancando le prove certe della riconducibilità di dette operazioni ad essa contribuente. I motivi che in quanto strettamente connessi vanno unitariamente esaminati non sono meritevoli di accoglimento.

Ed invero, la Corte costituzionale con la sentenza n. 228/2014 ha recentemente affermato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 come modificato dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 402, lett. a), n. 1), nella parte in cui estende ai compensi dei lavoratori autonomi la presunzione in forza della quale, anche in relazione a tali soggetti, il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo. Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini nel diritto interno come nel diritto comunitario, esistono specificità di quest’ultima categoria che inducono a ritenere arbitraria l’omogeneità di trattamento prevista dalla disposizione censurata, alla cui stregua il prelevamento dal conto bancario corrisponderebbe ad un costo a sua volta produttivo di un ricavo.

La decisione della CTR, la quale ha negato l’operatività della presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art.32 con riferimento ai prelevamenti effettuati dalla contribuente, è dunque conforme a diritto. Va peraltro corretta la motivazione della sentenza impugnata in quanto la mancata considerazione dei prelievi dal conto corrente va fondata non già sulla cointestazione del conto corrente, come affermato in sentenza, ma sulla necessità di trattare diversamente la situazione dell’imprenditore e quella del lavoratore autonomo, la cui attività si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo, fermo restando che gli eventuali prelevamenti vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria, da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali.

Con il primo motivo del ricorso incidentale la contribuente denunzia l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5), lamentando che la CTR abbia del tutto omesso di motivare in ordine alla dedotta irretroattività della modificazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) per effetto della L. n. 311 del 2004, in vigore dall’1 gennaio 2005, che ha esteso la presunzione bancaria ai compensi professionali.

Il motivo è inammissibile, posto che il vizio relativo alla motivazione in diritto della sentenza non può farsi valere deducendo il vizio di all’art. 360 c.p.c., n. 5), che riguarda la sola motivazione di fatto.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, della L. n. 2000 del 2012, art. 3 commi 1 e 2 nonchè dell’art. 32 comma 1 n. 2) cit.

D.P.R., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), formulando il seguente quesito di diritto:

“Dica la Corte di cassazione se la norma contenuta nella L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402 che ha modificato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) abbia effetto retroattivo.

Il motivo è inammissibile per genericità del quesito di diritto.

Questo giudice di legittimità ha infatti più volte affermato che è inammissibile il quesito di diritto che si risolva nella generica richiesta al giudice di legittimità di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma (Cass. 4044/09), dovendo al contrario investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa di segno opposto(Cass. SS.Uu. 23856/08).

Con il terzo motivo di ricorso si denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) dell’art. 2697 c.c., nonchè degli artt. 2727 e 2728 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), con il seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.:

“Dica la Corte di cassazione se in caso di  conti   correnti  cointestati la presunzione ex artt. 2727 e 2728 c.c., contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) e la conseguente inversione dell’onere della prova, ex art. 2728 c.c., si applica solo ove l’Amministrazione finanziaria dia prova del fatto noto dei versamenti effettuati dal contribuente sottoposto a verifica o si applichi anche ai versamenti di cui non si sia raggiunta la prova dell’effettuazione da parte del contribuente sottoposto a verifica”.

La contribuente lamenta, in particolare, che la CTR abbia considerato non soltanto i versamenti effettuati direttamente dalla contribuente ma anche quelli effettuati dal coniuge, escludendo unicamente gli stipendi del medesimo.

La censura, anche prescindendo dall’inadeguatezza del relativo quesito di diritto, è infondata.

Ed invero, in tema di  accertamento  delle imposte sui redditi, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti operati su  conti   correnti bancari vanno imputati a ricavi.

A fronte di detta presunzione legale il contribuente è onerato di fornire la prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purchè grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo (Cass. 22502/2011).

La presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla, infatti, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare operazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale (Cass. 13035/12).

Orbene tali principi devono ritenersi applicabili anche all’attività svolta dai lavoratori autonomi, ed ai versamenti effettuati dal coniuge cointestatario del conto corrente, gravando anche in tal caso sul contribuente l’onere di provare che i versamenti effettuati dal coniuge sul conto cointestato sono estranei all’attività professionale del contribuente.

Ed invero, come questa Corte ha già affermato, una volta dimostrata la pertinenza del conto corrente all’attività professionale del contribuente, tutti i versamenti effettuati su detto conto corrente, ancorchè materialmente effettuati dal coniuge, si presumono inerenti alla suddetta attività professionale, salva prova contraria a carico del contribuente (Cass. 21420/2012).

Con il quarto motivo la contribuente denunzia l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5), lamentando che la CTR non abbia tenuto conto della documentazione prodotta dal contribuente nel giudizio di appello, costituente la prova che gran parte delle movimentazioni dei conti   correnti rilevati dall’Agenzia non erano inerenti all’attività professionale del contribuente.

La censura difetta di autosufficienza.

Conviene premettere che dalla motivazione della sentenza impugnata risulta che i dati di conto corrente sono stati specificamente esaminati e valutati dalla CTR, che ha escluso dal reddito imponibile i versamenti relativi alla retribuzione da lavoro dipendente del coniuge della contribuente, ponendo a suo carico le somme di cui la stessa ha omesso di fornire una diversa giustificazione.

Ciò posto non risulta la rilevanza o decisività dei documenti prodotti dalla contribuente nel giudizio di appello ai fini della decisione della causa.

La contribuente si è infatti limitata a dedurre, genericamente, l’omesso esame della documentazione da essa prodotta in appello, senza peraltro descrivere analiticamente il contenuto di detta documentazione, nè specificamente indicare le ragioni di rilevanza della medesima ai fini dell’assolvimento della prova contraria alla presunzione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32 e dunque della corretta imputazione delle poste di conto corrente e dell’esatta ricostruzione del proprio reddito.

Con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2) dell’art. 53 Cost. e dell’art. 2229 c.c. con rifermento all’art. 360 c.p.c., n. 3), formulando il seguente quesito di diritto:

“Dica la Corte di Cassazione se l’applicazione del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 225/2005, comporta che, in caso di compensi professionali non dichiarati, accertati tramite il metodo previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 debba tenersi conto dei relativi costi non dichiarati e se, per dimostrare tali costi, il contribuente possa ricorrere alle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c.” Il motivo è inammissibile per inidonea formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. per genericità.

Questo giudice di legittimità ha infatti più volte affermato che il quesito di diritto dev’essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in termini tali da costituire una sintesi logico – giuridica unitaria della questione (Cass. Ss.Uu. n. 21672/2013), con la conseguenza che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da un quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia (Cass n. 7197/09), e che si risolva nella generica richiesta al giudice di legittimità di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma (Cass. n. 4044/09).

Il quesito deve al contrario investire la particolare ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa di segno opposto (Cass. Ss.Uu. 28356/08).

Va dunque ribadita l’inammissibilità del motivo di ricorso il cui quesito sia privo di uno specifico riferimento alla concreta questione sottoposta all’esame della Corte.

Il motivo difetta peraltro di autosufficienza, atteso che non risultano specificamente indicati gli elementi ex art. 2729 c.c. idonei ad individuare, in via presuntiva, i costi rilevanti ai fini della determinazione del reddito imponibile della ricorrente.

In conclusione va respinto sia il ricorso principale dell’Agenzia che quello incidentale della contribuente.

Considerata la soccombenza reciproca, appaiono sussistenti i presupposti per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio.

 

P.Q.M.

 

La Corte respinge il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrate e quello incidentale della contribuente.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2015.

Depositato in Cancelleria il 6 marzo 2015